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Le Assemblee dei Fratelli e l'anniversario della Riforma

Un libro in occasione del 500° anniversario: un fatto importante con qualche motivo di dissenso 

Che un esponente di rilievo delle Assemblee dei Fratelli italiane, il preside dell’Istituto evangelico di Roma – Fares Marzone – abbia scritto un libro di 335 pagine sulla Riforma protestante* (dedicato al conte Piero Guicciardini) e si sia impegnato a presentarlo e a diffonderlo tra le Assemblee dei Fratelli viaggiando attraverso l’Italia è un fatto nuovo, memorabile e molto rallegrante.

Lo scopo è chiaro: dimostrare che le radici storiche di un movimento evangelico di risveglio italiano, espressione della pietas di metà Ottocento e sempre tenutosi in disparte rispetto alle altre chiese evangeliche italiane, devono essere ricollegate alla Riforma protestante del XVI secolo, che costituisce la matrice comune di tutte le chiese evangeliche, storiche e non. Non per nulla il conte Piero Guicciardini raccolse per tutta la vita Bibbie e libri evangelici del ‘500 per dimostrare che anche l’Italia ha avuto la sua Riforma (molto più radicata di quanto si potesse pensare) e che ne siamo tutti gli eredi.

Un capitolo iniziale, un po’ troppo sommario, è dedicato ai tre «precursori»: Valdo, Wyclif e Hus. La presentazione della vita e del pensiero dei grandi Riformatori del ‘500: Lutero, Zwingli e Calvino è molto più approfondita e fondata su buone fonti e letture. Di Lutero sono ampiamente esposti gli aspetti positivi: il coraggio a Worms nel 1521, la traduzione della Bibbia, l’impegno pedagogico, la grande opera di predicazione, la scoperta della salvezza per grazia mediante la fede, la valorizzazione del canto dei fedeli nel culto, ecc. Quattro sono invece i suoi «limiti»: l’insistenza sulla presenza corporea di Cristo ne pane e nel vino della S. Cena, l’idea della religione di Stato, la distinzione nel canone biblico di alcuni libri di minor valore (Ester, Ebrei, Giacomo, Giuda e Apocalisse) e infine la sua presa di posizione violenta contro gli ebrei. Solo un brevissimo accenno è fatto alla rivolta dei contadini del 1525.

Di Calvino è molto lodata la predicazione, il ministero pastorale, la grande opera di commento alla Bibbia, la chiarezza dei suoi scritti e della sua vasta corrispondenza. Tra i suoi «limiti» sono indicati: il carattere irascibile e autoritario, la condanna a morte di Serveto, la scarsa enfasi data allo Spirito Santo (sic), la convinzione che il battesimo, dato ai neonati, sostituisca la circoncisione dell’Antico Patto.

Di fronte alla lunga polemica tra calvinisti e arminiani nata dal Sinodo di Dordrecht (1618-19), l’autore non si schiera ma chiede il rispetto per ambedue le posizioni. Si dichiara favorevole a un’affermazione di Philip Schaff: «Il calvinismo pone l’enfasi sulla sovranità di Dio e sulla grazia gratuita, l’arminianesimo sulla responsabilità dell’uomo. Entrambi hanno ragione in quello che asseriscono, ma hanno torto in quello che negano» (p. 192). Un ampio capitolo sulla Riforma in Italia approfondisce il pensiero di Juan de Valdés e dei più importanti teologi italiani dell’epoca.

A proposito del Sola Scriptura non manca un rimprovero alle chiese evangeliche storiche, le quali, «pur accettando delle confessioni di fede in cui ci sono degli articoli che attestano come la Scrittura sia ispirata e pertanto “inerrante” e la sola autorità in materia di fede e di condotta, non sempre, nella realtà, sono rimasti fedeli a questo assunto (in particolare nel campo dell’etica: aborto e unioni omosessuali!)» (p. 155).

Ora: siamo tutti d’accordo che la Bibbia è stata scritta da esseri umani ispirati da Dio, ma non è stata dettata da Dio parola per parola (come pretende il Corano) e quindi non si può dire che, solo perché ispirata da Dio, sia anche «inerrante». La Confessione di fede del 1655, che i pastori e le pastore valdesi s’impegnano a osservare, afferma che «noi riceviamo questa Santa Scrittura per divina e canonica, cioè per regola della nostra fede e vita» ma, come le altre Confessioni dell’epoca, non parla mai di «inerranza». Ogni versetto biblico va letto e compreso inserito nel suo contesto storico e letterario. Paolo scrive: «Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi» (II Corinzi 4, 7). E che cosa pensare delle norme rituali, cultuali e alimentari dell’Antico Testamento? Sono anch’esse tutte «Inerranti»? Francamente c’è già il papa che pretende di essere «infallibile» quando parla ex cathedra e questo ci basta. La Bibbia non è un papa di carta!

Un ultimo ammonimento alle chiese storiche è quello di non cadere «nel sottile tranello di alcuni “gesti di riparazione”, espressione del falso ecumenismo, accettando compromessi sul piano teologico che farebbero (fanno!) “voltare nella tomba” Lutero» (p. 17). E la conclusione dice: «Nell’anno della “celebrazione” della Riforma molte chiese protestanti storiche [...] hanno proseguito con un’ulteriore “apertura” ecumenica verso l’unità cristiana. Possono definirsi ancora loro, oggi, i veri “eredi” della Riforma o lo sono piuttosto le chiese evangeliche che hanno seguito e ulteriormente sviluppato le indicazioni dei riformatori radicali?» (p. 306).

Sono tutto sommato divergenze già ben note, che non impediscono certo di apprezzare una ricerca storica precisa e puntuale, la cui diffusione è quanto mai opportuna e utile in certi ambienti evangelicali poco sensibili alle nostre radici storiche comuni.

 

* Fares Marzone, La Riforma protestante. La sua importanza storica e teologica, i risultati, i limiti... e l’Italia?. Roma, Ibei edizioni, 2017.

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