La continuità tra passato remoto e contemporaneo, in India, è un elemento usuale tra le varie discipline che regolano la vita artistica del paese. Le tradizioni più antiche trovano ancora oggi interpreti in grado di ritrovarne le radici e portarla, antica e nuova allo stesso tempo, agli occhi dei testimoni attuali. Questo accade anche con usanze e culti che sembrerebbero scomparsi, ma che in qualche modo hanno trovato il modo di mantenere viva una scintilla attraverso il perpetuarsi di rituali che si manifestano nella danza e nell’arte.
Una mostra porta a Roma alcuni manufatti e oggetti d’arte che ci portano a scoprire alcuni siti archeologici legati al culto delle Yogini, 64 figure femminili danzanti che si manifestano attraverso alcuni particolari templi. Nella regione indiana dell’Orissa, zona che mantiene vive alcune culture e usanze tradizionali, ricco di templi, ne scopriamo uno in particolare, quello delle 64 Yogini di Hirapur. Ne parliamo con la curatrice, Maria Luisa Sales.
Cosa si può dire di questi templi?
«I Templi Yogini sono sicuramente tra i più affascinanti dell’India, che somma a tutt’oggi nove templi legati alle Yogini, di cui due tra i meglio conservati si trovano in Orissa, la regione che sta a nord est dell’India e che si affaccia sul Golfo del Bengala. Qui mi sono recata ad approfondire i miei studi di danza tra il 2011 e 2017. I Templi delle Yogini sono sconvolgenti per gli indiani stessi: hanno la peculiarità di avere quasi tutti una struttura circolare, sono senza tetto e consistono in un cerchio di immagini femminili, più o meno ben conservate, che attorniano una sola icona maschile, generalmente dedicata al dio Bhairav o, si suppone, nel tempio di Hirapur, allo Shiva danzante.
A tutt’oggi non si sa come si svolgesse il culto nei templi Yogini, che sono datati tra il IX e il XII secolo e che scompaiono poi dal XII o XIII in poi; il culto che oggi viene svolto è brahmanico ortodosso, comunque di epoca recente. Riguardo quelle che erano le pratiche tantriche di epoca alto-medievale ci sono solo ipotesi e ricostruzioni moderne».
Qual è la rappresentazione visiva legata a questo culto?
«La lettura che viene data dell’iconografie del tempio può essere dualistica: possiamo vedere queste 64 figure femminili come delle icone, delle divinità, anche locali, di villaggio, anche perché la nomenclatura delle divinità varia a livello regionale; oppure possiamo inserirne la lettura nell’ambito della filosofia dello yoga, come manifestazioni delle energie dei sensi, energie creative del corpo che si dispiegano dall’asse centrale rappresentato dall’elemento ascendente di Bhairav.
Tra l’altro il tempio è rimasto nascosto dalla comunità del villaggio fino al 1953, e questo ci dice molto sulla considerazione che aveva tra gli abitanti della zona.
In mostra c’è un’eccezionale raccolta, gran parte della quale eseguita da una pittrice che risiede in prossimità del tempio di Hirapur, che si trova a dieci km dalla capitale dell’Orissa, Bhubaneswar. La bottega a cui ho commissionato le opere è l’unica in India di stile tradizionale Pattachitra e Talapatrachitra, cioè di pittura su stoffa o incisioni e pitture su foglie di palma, che ha come unico soggetti le Yogini».
Quindi potremmo definirla contemporanea?
«È arte indiana contemporanea eseguita attraverso una tecnica tradizionale. Il discorso dell’antico e del contemporaneo è abbastanza sui generis in India perché non esiste una soluzione di continuità della tradizione come è avvenuto in Occidente. I pittori si fanno portatori di una tecnica, di una scelta di tematiche che comunque rimane costante all’interno della tradizione; il tema, per un pittore tradizionale è tutto. Questa è la peculiarità dell’arte indiana, anche di quella contemporanea: riuscire a transitare nella modernità, in un’estetica che per noi è comunque affascinante, delle tematiche che provengono dalla notte dei tempi. Perché comunque l’arte classica in India è una forma di yoga».