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Una «Casa delle culture» per testimoniare che l’integrazione è possibile

Intervista al pastore Massimo Aquilante, presidente della Fcei, sul nuovo centro di accoglienza di Scicli (Rg)

La «Casa delle culture» di Scicli (Ragusa) è in attesa dei primi immigrati che saranno ospiti della struttura, creata nell’ambito del progetto «Mediterranean Hope» («speranza mediterranea») della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). L’inaugurazione ufficiale del centro è prevista per venerdì 12 dicembre. Su Riforma abbiamo già dato notizia dell’apertura e delle reazioni negative di una parte della cittadinanza: a fine ottobre le saracinesche del centro sono state imbrattate con la scritta «Vergogna! No, no, no». Con il pastore Massimo Aquilante, presidente della Fcei, facciamo il punto della situazione e cerchiamo di mettere a fuoco le caratteristiche del progetto.

Che cosa è successo dopo la comparsa delle scritte?

«La Chiesa metodista di Scicli e gli operatori di Mediterranean Hope (Mh) hanno indetto un’assemblea cittadina che si è svolta il 31 ottobre per spiegare in che cosa consiste esattamente il progetto, rispondendo ad alcune delle obiezioni sollevate, in particolare da parte di un gruppo neofascista appartenente a «Forza Nuova» ma anche di altri, soprattutto sul fronte della destra politica. Ma ci sono state anche tante attestazioni di solidarietà trasversali: a me piace sottolineare soprattutto il piano ecumenico, in particolare da parte della parrocchia cattolica e del vescovo di Noto. Abbiamo redatto e diffuso un volantino per rispondere puntualmente alle obiezioni che fino a quel momento erano circolate. Nel frattempo un gruppo di commercianti si è riunito e ha dato luogo a una raccolta di firme contro l’apertura della «Casa delle culture», come abbiamo voluto chiamare il nostro centro di accoglienza. A questo punto abbiamo organizzato una seconda assemblea pubblica, a cui ho sentito il dovere di partecipare personalmente. La seconda assemblea si è svolta il 4 novembre con una buona partecipazione dei cittadini di Scicli – anche se purtroppo la parte contraria era assente (con i commercianti c’è stato però un incontro alcuni giorni dopo). Da varie parti è stata ribadita la solidarietà e la fiducia nel nostro progetto, anche con affermazioni impegnative, come quella del presidente del consiglio comunale che non solo ha tacciato di vigliaccheria gli assenti ma ha affermato: “Ancora una volta la chiesa metodista di Scicli fa la storia della città”. Un’affermazione forte che porta in sé la memoria della testimonianza che i metodisti hanno dato in quel territorio in oltre un secolo di storia».

Certo, basta pensare al pastore Lucio Schirò (1877-1961), antifascista e per due volte sindaco della città. Tornando alle obiezioni sollevate contro l’apertura del centro, qual è stata la vostra risposta?

«Anzitutto che noi certamente non “lucriamo” su questo intervento, in quanto esso è interamente finanziato dall’otto per mille delle chiese metodiste e valdesi. Questo vuol dire che non abbiamo nessuna necessità di concorrere ai finanziamenti pubblici secondo la normativa regionale. In secondo luogo lo spirito del progetto è, come in tutte le iniziative di azione sociale delle nostre chiese, quello di una testimonianza, non di una “impresa” a sé stante. Certo, si cerca di fare un lavoro fatto bene, con personale preparato, ma non tutto si esaurisce lì; c’è un appello alla popolazione locale a farsi coinvolgere in questo tipo di azione in prima persona (per esempio attraverso il volontariato), collocandosi dentro lo spirito del progetto. Come strutturiamo esattamente l’intervento a Scicli? Non è un caso che lo abbiamo voluto chiamare “casa delle culture” e non “centro di accoglienza”. Per quanto faremo effettivamente dell’accoglienza negli appartamenti che abbiamo preso in affitto, il punto caratterizzante è che l’accoglienza vuole essere veicolo di qualcosa di più ampio, di un incontro tra culture, sensibilità, spiritualità diverse. Questo è il senso dell’ospitalità: quello che nel gergo delle nostre chiese esprimiamo con la parola “integrazione”, che non è assimilazione ma un reciproco arricchimento».

Concretamente, abbiamo messo in campo una serie di idee che sono anzitutto sul piano della cultura: l’organizzazione di incontri festivi con musica, danza, gastronomia, aperti a tutta la popolazione. L’ampio locale che abbiamo a disposizione ci consente di svolgere questo tipo di attività, ma anche interventi culturali più impegnativi come convegni, incontri di studio e seminari. Prevediamo anche di organizzare, in collaborazione con altre realtà locali, corsi di studio della lingua italiana per i nostri ospiti, anche in vista del conseguimento della licenza media. Poi interventi sul piano del lavoro: contatti con artigiani o associazioni professionali per inserire gli ospiti in circuiti di formazione professionale. Proprio la presenza di giovani immigrati intenzionati a imparare certi mestieri potrebbe rappresentare la rinascita di certe professioni, di certe manualità in ambienti in cui si vanno perdendo. Infine lo sport, attraverso contatti con le associazioni sportive. Insomma, tutta una serie di percorsi che rispondono alla linea fondamentale: una testimonianza costruita insieme».

Di che tipo di locali è dotato il centro?

«Si tratta di ampi locali in affitto al centro della città, a pochi passi dalla Chiesa metodista. L’attività di ospitalità vera e propria si farà in tre appartamenti di circa 100 metri quadrati ciascuno, che potranno ospitare fino a una quarantina di persone. Nello stesso stabile, a piano terra con doppio affaccio sulla strada, c’è un ampio salone di circa 500 mq, che verrà adibito ad attività di incontro e integrazione. Per la mensa abbiamo previsto una convenzione con la vicina Opera diaconale metodista».

Chi saranno gli ospiti?

«In un primo tempo la prefettura ci aveva detto che avrebbe utilizzato la nostra disponibilità essenzialmente per i minori. Ma prevediamo di ospitare anche delle famiglie: una presenza “mista” di minori e famiglie è certamente preferibile. Naturalmente tutto può cambiare, può essere che fra qualche mese ci siano altre priorità, per esempio donne con bambini piccoli».

Il centro potrà quindi rispondere in modo flessibile alle esigenze del momento?

«Tutto sarà coordinato dalla prefettura. Ci sarà una convenzione con il Comune di Pozzallo, dove c’è il centro statale di prima accoglienza; con il Comune di Scicli non avremo un rapporto formale, ma verrà costantemente informato dell’arrivo di nuovi gruppi di ospiti. Ma quello che vorrei che fosse chiaro per i lettori di Riforma è che non stiamo creando un nuovo “istituto” isolato nel sud-est della Sicilia: la Casa delle culture di Scicli è l’altro versante del progetto Mediterranean Hope, partito alcuni mesi fa con un “osservatorio” a Lampedusa. L’originalità del progetto sta nel fatto che da Lampedusa parte un’informazione che attinge anche al “laboratorio” di Scicli per raccontare che, se è possibile a Scicli fare delle esperienze di integrazione, perché non deve essere possibile altrove? Il lavoro che si fa a Scicli non è fine a se stesso ma rientra in questa prospettiva di un laboratorio, di fornire degli input a chiunque nelle chiese e fuori dalle chiese voglia avere una comprensione del fenomeno migratorio realistica e seria. Vorrei anche sottolineare che, accanto alla presenza a Lampedusa e Scicli, stiamo per impiantare a Roma, presso il Servizio rifugiati e migranti della Fcei, una sorta di “relocation desk” che consenta di trovare un percorso di vita per gli ospiti, caso per caso».

Foto: "Scicli" by Davide Mauro - mia foto. Licensed under CC BY 2.5 via Wikimedia Commons.

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