Cambiare la narrazione sui migranti
29 novembre 2017
Un progetto pilota finanziato dall’otto per mille valdese per capire come (non) vengono raccontate le storie di rifugiati e migranti in sette paesi europei
«Changing the Narrative: media representation of refugees and migrants in Europe», è la ricerca frutto del progetto «Refugees Reporting» dell’Associazione mondiale per la comunicazione cristiana – sezione europea (Wacc) e della Commissione delle chiese per i migranti in Europa (Ccme), finanziato con i fondi dell’otto per mille della Chiesa valdese. I suoi risultati sono stati presentati a Bruxelles lo scorso 16 novembre di fronte a giornalisti e membri della società civile, e alla fine di questa settimana ci sarà un analogo incontro a Londra con giornalisti ed editori, chiamati direttamente in causa per il modo di narrare più o meno correttamente la materia relativa alle migrazioni.
Coordinatrice e relatrice del progetto è Francesca Pierigh, italiana, che da diversi anni lavora nell’ambito dei diritti dei rifugiati e della comunicazione e che in questo progetto si è occupata del coordinamento giornaliero dei gruppi, dello sviluppo della metodologia, oltre a collaborare nell’analisi dei risultati, nella scrittura della relazione, nella comunicazione con giornalisti e gruppi di rifugiati.
L’abbiamo contattata per farci raccontare questa esperienza e i risultati emersi.
La ricerca, ci ha spiegato, ha previsto un’attività di monitoraggio di tre tipi di media (giornali stampati, giornali online e account Twitter delle testate) in sette paesi europei (Grecia, Italia, Spagna, Regno Unito, Serbia, Svezia e Norvegia) in tre giornate del 2017. Il monitoraggio è stato svolto da gruppi di volontari individuati tramite i network delle organizzazioni che hanno gestito il progetto (Wacc e Ccme) e ha utilizzato, adattandola al contesto europeo e al tema, la metodologia del Global Media Monitoring Project, uno dei progetti principali del Wacc, che monitora la rappresentazione di genere nei media in tutto il mondo. Un secondo aspetto riguarda la comunicazione con giornalisti, gruppi di rifugiati e migranti, organizzazioni, raccogliendo le loro opinioni e testimonianze.
Riguardo alla scelta dei paesi e dei volontari, «l’idea era di mantenere un certo equilibrio fra paesi di entrata, transito e destinazione della migrazione: abbiamo osservato dove c’era espressione di un interesse, un numero minimo di persone disponibili e un network affidabile, dovendoci affidare completamente ai coordinatori nazionali». Sono stati questi ultimi a selezionare i volontari, quindi la loro composizione varia a seconda dei paesi: «in Italia abbiamo fatto riferimento alla rete dell’Osservatorio di Pavia che partecipa anche al Global Media Monitoring Project, quindi si trattava di studenti; nel Regno Unito invece la coordinatrice è stata contattata tramite la Ccme e faceva parte della Chiesa di Scozia».
Uno dei risultati più interessanti riguarda il tema dell’«invisibilità», di che cosa si tratta?
«Bisogna dire innanzitutto che i risultati sono indicazioni generali, perché il numero di articoli che abbiamo potuto monitorare non è molto ampio, non è un’analisi approfondita di come i media rappresentano il tema delle migrazioni, ma un punto di partenza. Abbiamo riscontrato una scarsa presenza dei rifugiati e migranti nelle storie che parlano di migrazione o di asilo. In media solo nel 21% dei casi, ma ci sono differenze: nel Regno Unito accade solo nell’8% dei casi. Questo si spiega in parte con il fatto che la maggior parte dei testi ha a che fare con il tema politico e giuridico, discussione di leggi o accordi: c’è un’identificazione del tema con il livello politico, piuttosto che con quello delle persone coinvolte. Un altro risultato interessante riguarda l’uso delle citazioni dirette, presenti solo nel 40% degli articoli analizzati. Questo, tenendo conto che una persona viene rappresentata in modo più accurato se vengono riportate le sue parole, è interessante. Le differenze fra i paesi sono notevoli, in Norvegia ad esempio la persona viene citata direttamente nell’88% dei casi, perché in questo paese esiste un codice di condotta per i giornalisti secondo cui tutti i soggetti delle storie devono avere diritto a dire la loro opinione o a ribattere. L’Italia è al 26%, un po’ sotto la media generale».
Un altro aspetto interessante riguarda il fatto che determinate categorie sono meno rappresentate di altre…
«Sì, ad esempio le donne: sono identificate in poco più del 25% dei casi, mentre nella realtà rappresentano una percentuale molto maggiore. È anche una questione di nazionalità, le più citate sono la Siria, l’Iraq, che destano maggiore interesse. Ma c’è il caso dell’Afghanistan, da cui proviene il secondo gruppo più numeroso di richiedenti asilo in Europa, che invece è solo al quarto posto per rappresentazione, con un 7%, che include anche altri paesi dell’Asia centrale. Solo il 2% poi viene identificato come nigeriano, mentre sappiamo che in Italia, e non solo, è una delle comunità maggiori».
Il problema dello spazio dedicato ai migranti non è solo quantitativo ma anche qualitativo…
«Sì, in media nel 67% dei casi i migranti sono l’oggetto della storia, ma non i protagonisti: non sono ad esempio citati come membri di organizzazioni, portavoce o esperti in qualcosa… Dal punto di vista dell’occupazione, ci siamo chiesti quante volte i migranti vengono identificati attraverso la loro professione: nel 43% dei casi questa non viene menzionata, nel 27% dei casi è identificata con l’essere migrante o rifugiato. È significativa l’identificazione delle persone con il loro movimento migratorio, come se non ci fossero in gioco capacità, esperienze… ed è un segno della loro marginalizzazione nella narrazione dei media».
Questa ricerca è stato un primo passo importante, un progetto pilota, che per la prima volta è stato realizzato a livello europeo. Quali saranno i futuri sviluppi?
«Il progetto si concluderà alla fine di quest’anno e non sono previste attività per il prossimo, anche se stiamo pensando a come continuare questa esperienza, metterla a frutto, visto l’interesse da parte di vari tipi di organizzazioni, con training per giornalisti e migranti per metterli in contatto…Il prossimo anno verrà svolta una ricerca analoga in Africa-Asia, ma speriamo che venga ripresa anche a livello europeo toccando altri paesi, la Germania ad esempio manca fra i risultati, e sarebbe interessante inserire anche Facebook tra i media analizzati. Vedremo gli sviluppi in Africa e Asia e nel 2019 speriamo di mettere insieme i risultati per vedere se possono essere comparabili o no…»
Per informazioni sul progetto e la ricerca si può consultare il sito.