«Un cambiamento di prospettiva: dalla vittima alla riparazione», è un progetto dell’Associazione Spondé – parola greca con la quale si fa riferimento al sacrificio offerto per sancire l’esito positivo di una trattativa di pace –, finanziato con i fondi dell’otto per mille dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (Ucebi). Il titolo del progetto richiama un cambio di paradigma. Di cosa si tratta? Ne parliamo con Maria Pia Giuffrida, tra le fondatrici dell’associazione, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria e presidente dell’Osservatorio permanente sulla giustizia riparativa e la mediazione penale, istituito presso il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap).
«La “prospettiva riparativa” in primo luogo mette al centro di tutto la responsabilità: chi ha commesso reato deve assumersi la responsabilità non solo rispetto alla norma infranta ma anche rispetto al danno fatto alla persona o a più persone che sono vittime. Dunque, cambia la prospettiva: da una giustizia retributiva e rieducativa in cui il trattamento penitenziario è centrato unicamente sulla volontà e sul bisogno del reo di uscire dal carcere o dal sistema dall’esecuzione della pena generale, si passa ad una giustizia relazionale. La direttiva di Strasburgo del 2012 afferma che il reato non è solo la frattura di una norma ma anche quella di una relazione, e dice con forza che la giustizia riparativa va implementata nel rispetto dei bisogni della vittima. La giustizia riparativa dunque tende a ricostruire dei legami, un pezzo di cittadinanza: si tratta di una vera rivoluzione copernicana».
In cosa consiste il progetto che è cominciato a settembre 2016 e si concluderà entro la fine del 2017?
«Il progetto intende dare seguito alla direttiva di Strasburgo del 2012 sui diritti delle vittime che invita gli stati membro a creare degli sportelli di ascolto e di accompagnamento delle vittime secondo un’ottica generalista. Mi spiego: in molti paesi, tra cui l’Italia, esistono dei centri per le vittime che vengono organizzati per tipologia di crimine; quello che invece cerchiamo di fare è di coprire un vuoto, offrendo uno spazio di ascolto garantito e protetto a quanti sono stati vittime di reato, anche a prescindere – come dice la direttiva europea – dalla volontà di procedere alla denuncia.
In questo primo anno, il progetto prevede la formazione del personale di sportello. Le richieste di partecipazione al progetto sono state numerose, segno dell’attenzione che comincia a risvegliarsi anche nel nostro paese».
Che tipo di accoglienza riceve questo cambio di paradigma all’interno del contesto del sistema carcerario italiano?
«Credo che su questa “nuova” prospettiva ci sia molta enfasi, ma una scarsa conoscenza perché si tende ancora una volta a farne un automatismo. Sostengo che la giustizia riparativa è un percorso autonomo dalla retribuzione: i criteri fondanti della riparazione stanno infatti nella responsabilizzazione di chi ha commesso il fatto ma anche nella volontarietà da parte di chi ha commesso il fatto di intraprendere un percorso, e nella volontarietà e libertà da parte di chi ha subito il reato di accettare o meno questa possibilità riparatoria. Tutto si gioca quindi sulla libertà assoluta che presume una corretta informazione delle parti su cos’è la giustizia riparativa, che non può essere ridotta ad un meccanismo teso a sfoltire le carceri, ad esempio.
In linea generale, comunque registriamo interessamento sia da parte degli operatori (assistenti sociali, educatori, polizia penitenziaria, direzioni degli istituti), sia da parte dei detenuti, che inevitabilmente sono interessati in termini strumentali alla riparazione. In questo caso occorre rimettere al posto giusto la responsabilità e la libertà e, se la dimensione strumentale riesce ad essere riassorbita in una volontà precisa del reo, allora si comincia a disegnare un percorso riparativo».
Laddove c’è stato un percorso di giustizia riparativa, quali effetti ha visto?
«Ho seguito nelle carceri italiane tanti casi di persone che hanno commesso diversi tipi di reato (dal sequestro di persona all’omicidio) e hanno intrapreso un percorso di giustizia riparativa: avviene una rivoluzione! Quando il detenuto comincia ad accogliere la possibilità di incontrare la vittima, o i familiari della vittima, di guardarli negli occhi, avviene in lui un importante cambiamento: è chiamato a farsi carico delle proprie responsabilità. Il counselling, che è un percorso lento, permette al detenuto di raccontarsi in un modo che possa essere accolto dalla parte di chi ascolta. C’è oggi certamente un’affabulazione intorno al racconto, che non giudico, e occorre destrutturare una serie di verità portando il reo a considerare la vittima e i suoi bisogni. Quando questo accade, avviene il cambiamento».