Ambiente, un accordo debole
13 giugno 2017
Il G7 ambiente, concluso a Bologna, ribadisce la rottura tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi sul cambiamento climatico. Dove non arrivano gli Stati, è necessario il contributo della società civile
L’incontro tra i ministri dell’Ambiente dei paesi del G7 si è concluso lunedì 12 giugno con un comunicato che non sorprende, ma che cerca di rilanciare sugli impegni presi a fine 2015 alla Cop21 di Parigi, quando si adottarono nuove strategie per contenere il cambiamento climatico e i suoi effetti entro una soglia che permetta la sopravvivenza del più alto numero possibile di specie animali e di ambienti minacciati.
Con il documento finale redatto e pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente, si sancisce quindi in modo ufficiale la rottura avvenuta dieci giorni fa: gli Stati Uniti, infatti, hanno rifiutato di sottoscrivere un comunicato congiunto con gli altri Paesi del G7 sul tema del cambiamento climatico, ma ha annunciato che continuerà a lavorare con i partner internazionali sui temi ambientali. Nel documento gli Stati Uniti, che sono il secondo inquinatore al mondo, non vengono mai nominati, e per i “G7 ambiente” è una prima volta assoluta. Scott Pruitt, direttore dell’agenzia statunitense Epa, Environmental Protection Agency, ha partecipato all’incontro per 5 ore e ha mantenuto la linea portata avanti da Donald Trump, che sostiene che l’Accordo di Parigi mette l’economia statunitense e i lavoratori americani in una condizione di svantaggio.
Parlando alla Casa Bianca il giorno dopo il ritorno da Taormina, Pruitt ha detto che gli Usa sono pronti a rinegoziare l’Accordo di Parigi o a scriverne uno nuovo, ma Italia, Francia e Germania avevano emesso un comunicato congiunto dicendo che non lo avrebbero mai permesso.
L’assenza degli Stati Uniti fa capire però che la vera partita era già stata giocata a fine maggio al G7 dei capi di Stato a Taormina, dove il presidente statunitense Trump decise di rompere l’accordo sul clima, annunciando l’avvio della procedura di uscita dall’intesa, che si potrà concretizzare il 4 novembre del 2020.
«Clima a parte, su tutti gli altri temi c'è accordo completo» aveva dichiarato domenica 11 giugno, alla fine della prima sessione di lavori, il ministro italiano all’Ambiente, Gian Luca Galletti, parole che suonano come un tentativo di difendere una situazione ormai ampiamente compromessa. La settimana scorsa, in vista di questo vertice, aveva anche dichiarato che «nelle sfide per l’Ambiente si vince insieme o si perde insieme», una posizione e una visione condivise dai principali Paesi dell’Unione europea, ma distante in questa fase dalle scelte statunitensi. «L'Europa in questa vicenda gioca un ruolo un po' più autonomo rispetto ad altri argomenti – ricorda Antonella Visintin, coordinatrice del Glam, il gruppo globalizzazione e ambiente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia – e dunque mantiene la posizione sul tema. Per ciò che riguarda gli Stati Uniti, noi sappiamo già da molti anni che non vogliono stare dentro a nessun trattato. La dichiarazione che è stata fatta a tal proposito vuole di dimostrare con i fatti e non con le firme la cura dell'ambiente»
Insomma, che cosa rimane di questo vertice?
«C'è da dire che è stato deciso che la prossima conferenza delle Nazioni unite sul clima, la Cop23 di Bonn, aprirà le porte non solo agli accordi tra Stati, ma anche a Regioni e città. Oltre a questi, i temi erano rifiuti in mare, riciclo, tassazione ambientale e sussidi dannosi all'ambiente, temi di lungo termine sui quali anche l'Italia non ha una posizione limpidissima».
A cosa fa riferimento in particolare?
«L'anno scorso c'era stato il referendum sullo sfruttamento degli impianti estrattivi in mare, che non è passato, e nonostante molte regioni si siano opposte, l'Italia in realtà continua a non perseguire con determinazione la strada del disinvestimento dalle energie fossili. La Basilicata, in particolare, è la regione che più patisce, perché ha un sistema idrico delicato e ormai in pericolo. Maurizio Bolognetti, attivista radicale lucano, sta facendo uno sciopero della fame da molti giorni per protestare proprio contro questo disinteresse».
Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi è stato fortemente criticato da molte realtà statunitensi. Possiamo dire che la sensibilità sul tema del cambiamento climatico ormai è trasversale?
«Assolutamente sì. A proposito del disinvestimento, c'è una campagna mondiale, a cui aderiscono organizzazioni cristiane, soprattutto protestanti, a cui diversi organismi stanno aderendo. Il punto non è dunque la sensibilità su questi temi, che cresce ovunque e anche nelle nostre chiese, ma i tempi di intervento, che sono ancora inadeguati. Per esempio, lo scioglimento dell'Artico sta andando più velocemente del previsto e si prevede che sparirà in meno di dieci anni e nei prossimi 50 ci sarà più plastica che pesci nel mare. Non ci rendiamo conto di questo e continuiamo con i balletti diplomatici».
Anche vista questa urgenza, come si evolve l’impegno delle chiese sul tema?
«Credo che l'impegno delle chiese non possa che continuare, non è mai smesso. Ma dobbiamo ribadire anche a Bonn cosa è stato detto a Parigi: sicuramente ci saranno mobilitazioni in questa direzione. Ciò che è poco noto è il contributo delle comunità di fede rispetto alla sensibilità ambientale, ma invece è molto importante: di recente sono stata a un incontro internazionale organizzato dall'università di Edimburgo nel quale si parlava proprio di questo impegno. Possiamo ricordare anche una presa di posizione dell'Alleanza riformata mondiale e dell'Alleanza Luterana mondiale proprio su questi temi, basti pensare che uno degli slogan dei 500 anni della Riforma è “il Creato non è in vendita”. Sono tutti segnali che ci fanno sperare e che ci dicono come la politica sia più lenta della coscienza delle persone. Sicuramente i paesi a maggioranza protestante sono una speranza per noi».