In occasione del fatto che è stata prorogata fino al 2 luglio, andiamo alla fondazione Accorsi Ometto di Torino dove è esposta la mostra Dal Futurismo al ritorno all’ordine. Un percorso espositivo che esplora il decennio 1910–1920 attraverso 72 opere. Dieci anni che raccontano i vari movimenti pittorici, scultorei e figurativi dell’Italia in quegli anni fondamentali. Come spiega il responsabile delle collezioni, Luca Mana, si inizia con il Futurismo milanese, si passa al Cubo Futurismo fiorentino, al Futurismo Analogico romano, per poi passare al gruppo Nuove tendenze e ai pittori di Ca’ Pesaro a Venezia, il realismo magico e infine il ritorno all’ordine a partire dal 1915.
Perché è un momento storico così significativo?
«La mostra, a cura della dottoressa Nicoletta Colombo, racconta i fermenti culturali dell’Italia nel decennio 1910–1920, normalmente associato al Futurismo milanese. In realtà la mostra documenta e testimonia altri importanti movimenti figurativi italiani: il 1910, che segna sostanzialmente l’inizio della mostra, non solo è l’anno dei due manifesti storici del Futurismo, ma anche, per esempio, della prima natura morta metafisica di Giorgio De Chirico, che sostanzialmente contrappone alla cultura del rumore dei futuristi, la cultura del silenzio. È anche l’anno della prima grande mostra a sud delle Alpi di Gustav Klimt, che a Venezia espone più di 270 opere e che segna il formarsi, proprio nella città, del cosiddetto “Realismo magico” il cui esponente più importante fu Felice Casorati. Un nome importante anche per Torino, dove Casorati giungerà solo alla fine del 1917 al termine della sua esperienza veronese, padovana e veneziana, che segna il movimento di Ca’ Pesaro».
È in questi anni che si passa dall’arte classica all’arte contemporanea?
«Più che arte classica, direi arte accademica, arte codificata. L’Italia, già alla fine dell’Ottocento, dimostrava di guardare a quello che accadeva a nord delle Alpi: pensiamo al divisionismo che, a partire dal 1891, fa il primo tentativo di svecchiare il gusto artistico italiano. Artisti come Previati e Segantini saranno assolutamente ammirati, studiati da Boccioni, Russolo e Carrà che sono poi i tre nomi fondamentali e fondanti per il Futurismo milanese oltre a Marinetti. Un decennio importante quanto il decennio Roma 1600–1610».
È anche il decennio delle prima guerra mondiale. Questo in che modo influisce sull’arte?
«Influisce, per esempio, nel caso di un personaggio come Carlo Carrà, tra i primi a rinnegare il suo recentissimo passato futurista già a partire dal 1915. Quando parlo di Futurismo milanese non lo faccio a caso, in quanto a Firenze e a Roma si imparano altri tipi di futurismi; Carrà decide sostanzialmente di abbandonare questa cultura del rumore per tornare alle forme tipiche dell’Italia tardo medievale–rinascimentale. Lui, a partire dal 1915, comincia a riflettere sulla forma, cosa che i futuristi invece avevano fatto fino a un certo punto. Soprattutto a causa della prima guerra mondiale, Carrà fu uno dei primi a rendersi conto che la guerra non è l’unica “grande igiene del mondo”, come avevano pensato i futuristi, ma è una tragedia. Dopo il trauma della guerra si aggiungono tutta un’altra serie di fermenti culturali e importante fu il fatto che nel 1914 il critico d’arte albese Roberto Longhi pubblicò il suo saggio su Piero Della Francesca, con il quale sostanzialmente iniziò quella rivalutazione dell’arte formale, tridimensionale, della solidità insomma, dei concetti geometrici rinascimentali».
In questi dieci anni cosa emerge riguardo il segno e l’uso del colore?
«La mostra inizia con il Futurismo milanese che, sostanzialmente, finisce nel 1916:, nell’agosto muore Boccioni, nel settembre muore l’architetto Antonio Sant’Elia e l’eredità del futurismo milanese passa a Firenze, con Ardengo Soffici e Gino Severini, e a Roma, con Giacomo Balla. Loro continueranno questo tentativo di dare una forma anche all’invisibile; invisibile come aria, come luce. Accanto a questi movimenti però, ce ne sono altri: il Gruppo Nuove Tendenze di Milano con Mario Sironi le cui opere sono un inno antiborghese; c’è il movimento di Ca’ Pesaro con Felice Casorati, Guido Trentini e altri, per passare a questo progressivo “ritorno all’ordine” che matura anche all’interno delle secessioni, non solamente quella di Venezia ma anche a Bologna, Roma e poi, infine, con De Chirico. Nel 1915, Ferrara è la città che vede De Chirico, Alberto Savinio, Filippo de Pisis e poi Carrà, ritornare anche in chiave nazionalistica, patriottica, a quelle forme rinascimentali che poi ispireranno il gruppo 900, il gruppo di Mario Broglio, Margherita Sarfatti e Lino Pesaro».
Come si inserisce la città di Torino in questo decennio?
«Torino fu meta delle cosiddette “spedizioni punitive” futuriste. Sin dai primissimi anni ’10, per esempio, i futuristi milanesi erano soliti ritrovarsi presso il Politeama cinema teatro “Chiarella”, un locale a San Salvario che purtroppo è andato distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Torino ha visto i futuristi comparire sulla scena culturale figurativa del tempo. Certo, la Torino di inizio anni ’10, era ancora legata al gusto accademico e conservatore ottocentesco dei Savoia come capitale della dinastia regnante; anche per motivi politici rimaneva legata a quello che era il “buon gusto” sabaudo. A partire dal 1917 sarà fondamentale la presenza di Felice Casorati che si legherà a Lionello Venturi, Odoardo Persico e Riccardo Gualino, la cui importanza e mecenatismo è noto anche attraverso le commissioni a Felice Casorati, che qui introdurrà uno stile completamente nuovo e alternativo. Insieme a loro, anche Giacomo Grosso, che era uno dei punti di riferimento della borghesia e dell’aristocrazia sabauda. È noto lo scontro che a partire dai primissimi anni ’20 che vedrà contrapposti Casorati e Grosso.
Ma pensiamo anche alla Fiat, al cinema e alla moda per cui Torino ha segnato i tempi in tanti modi. Sono tante le facce attraverso le quali si manifesta tutto quello che era il fermento culturale della città all’inizio del ’900. Parlo della Fiat perché per esempio le macchine prodotte a Torino erano citatissime, non solo a Torino e a Milano. In mostra è presente Mario Sironi con una bellissima opera in cui è citata una Fiat T10, lo scimmiottamento italiano della celebre Ford T10, le prime autovetture prodotte in maniera scientifica con la catena di montaggio in Europa».