Quando si guarda al Mediterraneo si vedono aree agitate, luoghi che cambiano e persone che si spostano. Sotto la superficie delle acque, però, ci sono soprattutto persone che muoiono cercando di raggiungere l’Europa. Secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nei primi quattro mesi del 2017 sono 1.002 le persone che hanno perso la vita lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che connette la Libia e la Sicilia. Tuttavia, nelle ultime settimane questo dato è passato in secondo piano, schiacciato dalle polemiche sulle organizzazioni non governative che dal 2014 compiono operazioni di salvataggio in mare.
Oltre all’accusa di rappresentare un “fattore di attrazione” per i migranti, perché si spingono troppo vicino alle coste libiche, è diventata sempre più rumorosa la voce secondo cui le ong si arricchirebbero sfruttando il cosiddetto “business dell’accoglienza” e addirittura facendo affari con i trafficanti di esseri umani. «A mio avviso – dichiarava giovedì 27 aprile il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, titolare di una delle inchieste sui presunti contatti tra le organizzazioni umanitarie che operano nel Canale di Sicilia e i trafficanti di uomini – alcune ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti. So di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga».
Eppure, il giorno prima il vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans, aveva proprio dichiarato che «non c’è nessun tipo di prova che le ong lavorino con le reti criminali dei trafficanti di esseri umani per aiutare i migranti a entrare nell’Unione europea». Dopo le reazioni del ministro della Giustizia, Orlando, e del ministro degli Interni, Minniti, che hanno chiesto a Zuccaro di parlare soltanto in presenza di atti e indagini, il procuratore è intervenuto per chiarire di non avere prove giudiziarie su comportamenti non trasparenti delle ong, ma di essere soltanto in possesso di informazioni su conversazioni dirette in lingua araba tra rappresentanti delle organizzazioni e soggetti sulla terraferma in Libia, inutilizzabili però in sede di processo.
Negli stessi giorni, invece, il procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, ha affermato che, a proposito dei salvataggi in mare, «non sono emersi reati tali da giustificare l’adozione di provvedimenti da parte nostra. Se qualcuno va a soccorrere in mare un barcone di migranti, lo fa nello stato di necessità di salvare centinaia di vite umane. In che modo si potrebbe configurare un reato di favoreggiamento quando c’è qualcuno da soccorrere?».
Secondo Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di Solidarietà e membro di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, «è difficile dire in che momento siano cominciati questi attacchi, perché le polemiche si trascinano da molto tempo. Forse il primo è stato, purtroppo, quello dell’agenzia Frontex più di un anno fa, quando se la prese direttamente Medici senza frontiere. Ma in realtà è diffuso da tempo il fatto di accusare le organizzazioni non governative che fanno soccorso in mare e che, ricordo, si attengono a un protocollo unico e sono coordinate dalla guardia costiera».
Ma quali sono i fondamenti di questi attacchi?
«Bisogna partire dall’accusa di base: si attaccano le singole organizzazioni umanitarie dicendo che la loro azione favorisce i trafficanti, perché le operazioni di salvataggio, quanto più sono veloci e quanto più sono prossime al confine tra le acque internazionali e le acque territoriali, costituirebbero un fattore di attrazione per i migranti stessi. Qui si ignora il dato fondamentale, cioè che i migranti di cui parliamo non scelgono di partire perché il soccorso è più o meno veloce, ma partono perché non hanno altra scelta se non quella di farlo. Siamo di fronte a una tragedia umanitaria che impone a queste persone di partire comunque e non ha nessun fondamento dire che esiste un fattore di attrazione. Anzi, purtroppo i dati ci dicono che, laddove il soccorso è stato arretrato anche fisicamente nelle acque internazionali, sono aumentate proprio le morti in mare».
Non è la stessa accusa che venne mossa tra il 2014 e il 2015 all’operazione Mare Nostrum?
«Esattamente. Quell’operazione, portata avanti dallo Stato italiano dopo la strage del 3 ottobre 2013, venne criticata duramente proprio per questo. Il fatto è che a seguito della sospensione di Mare Nostrum e con l’introduzione della nuova operazione Triton si registrò un peggioramento complessivo delle capacità di soccorso, un aumento delle traversate e di conseguenza un aumento delle morti».
Una delle accuse mosse è quella di arricchirsi attraverso i salvataggi in mare. Come avverrebbe?
«Nessuno lo sa. Naturalmente nessuno ha provato il fatto che le organizzazioni ricevano soldi dai trafficanti. Certo, se così fosse ci troveremmo di fronte a una partecipazione a pieno titolo alle operazioni di traffico di esseri umani, ma finora nessuno ha mai potuto formulare questa accusa in modo circostanziato e nessuno, a oggi, è iscritto nel registro degli indagati per questa ipotesi di reato».
L’alternativa qual è? Smettere di soccorrere le persone?
«Ecco, nessuno deve mettere in discussione che ci sia non solo un diritto, ma addirittura un obbligo di soccorso che è previsto dalle convenzioni del diritto internazionale marittimo. Anzi, vorrei ricordare che l’omissione di soccorso in mare costituisce una colpa, tra l’altro una violazione dell’articolo 1152 del codice della navigazione interna che viene tra l’altro punito con la pena della reclusione. Non ci sono dubbi, sotto nessun profilo, su cosa si debba intendere quando si parla di obbligo di soccorso».
Quindi il problema per chi lancia queste accuse è il fatto di portare le persone in Europa anziché riportarle in Libia?
«Probabilmente sì. Qui però bisogna ripartire da un’interpretazione corretta della definizione di “luogo sicuro” o “porto sicuro”. Qualcuno ha voluto strumentalmente sollevare il problema che in realtà le persone dovrebbero essere riportate nel porto più vicino, ma per “porto sicuro”, ai sensi della Convenzione SAR per i soccorsi in mare del 1979, si parla di luogo sicuro».
In che modo i due concetti non coincidono?
«Chiaramente, secondo le linee guida interpretative di questa convenzione, quando si parla di “porto sicuro” si intende spesso il luogo più vicino per evidenti ragioni logistiche, dove le persone possono godere di assistenza primaria, ma, cito testualmente, “si può intendere il luogo dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata”. Questo ci fa capire che dobbiamo leggere il concetto di “porto sicuro” anche alla luce della convenzione di Ginevra sui rifugiati e dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo che proibisce la tortura. Incrociando queste normative ci rendiamo conto che in questo caso non è possibile interpretare il concetto di “porto sicuro” o “luogo sicuro” come il porto di partenza, o la nazione di partenza, da cui le persone stanno fuggendo. Riportare le persone lì, al contrario, si configura come un’azione di respingimento, che sappiamo già essere stata sciaguratamente tentata nel 2009 dal governo italiano di allora e condannata dalla Corte europea con la famosa sentenza Hirsi. Quindi “porto sicuro” non sempre e non necessariamente è quello più vicino, ma è quello dove le persone godono di un accesso pieno ai propri diritti, compreso quello di chiedere asilo».
Quindi le coste italiane sono l’unica destinazione possibile?
«Una delle questioni che potrebbe essere sollevata è il fatto che il porto sicuro più vicino spesso è Malta, ma qui chiaramente si apre la questione, che chiunque può capire anche intuitivamente, che questo Paese non è in grado di garantire nel tempo un’accoglienza di numeri elevati. Certo, questo chiama in causa un dato che ha anche molto a che fare con la creazione di corridoi umanitari e in generale con la riforma del sistema d’asilo in Europa: è vero che una volta portate nel porto sicuro, cioè sostanzialmente l’Italia, il sistema europeo dovrebbe garantire una distribuzione delle presenze che oggi non garantisce e anzi addirittura paradossalmente ostacola questa distribuzione con l’applicazione dell’attuale regolamento Dublino III, quindi è vero che siamo di fronte a un coacervo di contraddizioni e che il sistema europeo, che va profondamente cambiato, in questo momento non favorisce l’Italia. Pensate già solo al fatto che le navi che prestano soccorso, anche battenti bandiera non italiana, poi portano le persone in Italia, ma poi nel nostro Paese formalmente restano o dovrebbero restare per fare la domanda d’asilo. Questo sistema evidentemente può funzionare in singole situazioni o per periodi, ma non può essere immaginato a regime».