Che cosa ci ha insegnato Lampedusa
20 aprile 2017
A tre anni dall'apertura dell'Osservatorio di Mediterranean Hope, un bilancio di questa esperienza di frontiera
Editoriale di Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia
Tre anni fa, a pochi mesi dalla strage del 3 ottobre 2013, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia decise di istituire un “Osservatorio” a Lampedusa. Le immagini delle centinaia di bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di un’isola più vicina alla Tunisia che all’Italia avevano fatto il giro del mondo e avevano raccontato una storia di disperazione e di generosità. La disperazione dei migranti che avevano perso amici, fratelli e sorelle, la disperazione dei lampedusani che, corsi in soccorso, non erano riusciti a salvare i ragazzi che cercavano di resistere a galla; ma anche la generosità di un’isola che da quel giorno non è più stata la stessa diventando, suo malgrado, il luogo in cui il Sud incontra il Nord del mondo. Un luogo fisico e simbolico che racconta le migrazioni mediterranee e che da allora ci spiega chi sono i “nuovi migranti” che arrivano sulle nostre coste e, soprattutto, perché arrivano così numerosi e in condizioni così disperate.
Grazie all’Osservatorio di Lampedusa costituitosi all’interno di Mediterranean Hope, il progetto sulle migrazioni lanciato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia proprio tre anni fa, abbiamo imparato che la distinzione tra “migranti economici” e “richiedenti asilo” ha sempre meno senso. Grazie a centinaia di articoli, video, disegni, interviste, post, gli operatori di Mediterranean Hope che vivono sull’isola ci hanno fatto incontrare giovani torturati e perseguitati che sono anche poveri ed affamati. Il migrante mediterraneo del XXI secolo non ha quasi nulla in comune con i nostri bisnonni che vendevano i beni di famiglia per acquistare un biglietto con il quale raggiungere gli Stati Uniti o il Sud America. E’ diverso anche dai nostri padri che negli anni della ricostruzione abbandonavano le campagne per andare a lavorare nelle miniere del Belgio o nelle fabbriche tedesche. E’ diverso anche dall’esule dell’Est Europa che negli anni ’50 o ’60 scappava attraversando la cortina di ferro o dal cileno perseguitato dal regime di Pinochet che negli anni ’70 cercava asilo in Italia. Il “progetto migratorio” di chi arriva scalzo a Lampedusa, dopo aver subito angherie e violenza inenarrabili, è molto semplice: sopravvivere, sperare di arrivare a domani prima che una bomba, la fame, la sete o un mercante di schiavi ti uccida.
Lampedusa ci ha insegnato anche che per migliaia di migranti, alle violenze della povertà e della persecuzione si aggiunge anche quella della sfruttamento e della brutalità dei trafficanti, di quelle centrali organizzate che al prezzo di qualche migliaio di dollari ti offrono una rischiosa via d’uscita dalla disperazione. Un gioco cinico e macabro che nei primi quattro mesi del 2017 ha già ucciso oltre 900 persone. Se va avanti così sarà un anno record. E non è un caso che proprio ragionando su quanto imparavamo a Lampedusa sia maturata l’idea dei corridoi umanitari, il canale che entro questo mese avrà portato in Italia, legalmente e in sicurezza, circa 800 migranti in condizione di grande vulnerabilità.
L’isola, ancora, ci ha insegnato che i flussi migratori sono così forti da non potersi fermare. Al massimo si possono “spostare” su altre rotte. Ed è quello che è accaduto in seguito alla chiusura della “rotta balcanica” grazie all’intransigenza ungherese e agli accordi con la Turchia. Ma il risultato di queste chiusure non è stato affatto una diminuzione dei flussi ma, semplicemente, il loro spostamento lungo la rotta del Mediterraneo centrale che passa, appunto, da Lampedusa. E così, in un anno, l’Italia ha visto aumentare gli arrivi nella misura del 19%.
Infine Lampedusa ci ha mostrato il profilo emergente dei “nuovi profughi”: in misura crescente sono minori non accompagnati, migranti bambini sui quali la famiglia ha scommesso tutto il suo futuro. Lo si vede nell’internet point aperto da Mediterranean Hope dove ogni giorno decine di ragazzi si accalcano per chiamare la famiglia e rassicurare i genitori che “sono vivi e stanno bene”. E non è un caso che proprio ai minori non accompagnati sia principalmente dedicata la Casa delle Culture che Mediterranean Hope ha aperto a Scicli (RG) nel dicembre del 2014 e che da allora accoglie in media 40 ragazzi appena sbarcati dai mezzi di soccorso giunti a Pozzallo.
Ma a una comunità di fede quale la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Lampedusa ha dato un’altra grande opportunità: la possibilità di testimoniare il dono cristiano dell’accoglienza, la libertà evangelica di dire “benvenuti” a uomini e donne che in tanti – troppi – vorrebbero rimandare nell’inferno da cui sono scappati. Non è la cosa più popolare ma, per dirla con Martin Luther King, è semplicemente quella più giusta da dire e da fare.