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Ascoltiamo e leggiamo i dati sull’andamento dell’occupazione e della disoccupazione in Italia come ascoltiamo e leggiamo le previsioni meteo. Con un senso di ineluttabilità e di impotenza. Possiamo farvi fronte solo adattando i nostri comportamenti alla rappresentazione che ci viene offerta dello stato di salute della nostra economia, ma con un di più di insicurezza poiché non sappiamo se e quanto la nostra vita privata risentirà dell’andamento della congiuntura. E neppure sappiamo bene che cosa significano davvero i dati che ci vengono proposti. C’è una diffusa diffidenza verso la statistica (scienza meglio conosciuta per la famosa «media del pollo») e spesso non si sa che concetti apparentemente semplici come quelli di occupato e disoccupato hanno dato luogo in sede statistica e definizioni stringenti e restrittive.

A esempio: Eurostat (ente di statistica europeo) e Istat, che producono le indagini sulle Forze di lavoro – frutto di rilevazioni trimestrali su campioni significativi di famiglie – considerano occupate le persone che hanno lavorato almeno un’ora nella settimana precedente la rilevazione, anche senza percepire reddito. E sono classificate come disoccupate solo le persone che, nelle 4 settimane precedenti la rilevazione, hanno svolto una ricerca attiva di lavoro (recandosi a un Centro per l’impiego, facendo domanda di lavoro presso un’azienda, rispondendo a un annuncio, ecc.). Tutti gli altri vengono considerati inattivi (non forze di lavoro), comprese le persone che, in cerca di lavoro da molto tempo, hanno smesso di cercarlo perché non sanno più che cosa fare in un paese in cui i servizi per il lavoro praticamente non esistono. Dunque quando leggiamo – come nei giorni scorsi – che gli occupati hanno raggiunto il 57,8%, un valore vicino a quello della situazione pre-crisi (2008: 58,8%) dobbiamo sapere che questo dato mette insieme condizioni di vita e di lavoro molto differenti tra di loro: occupati a tempo indeterminato e a tempo pieno, lavoratori precari, lavoratori indipendenti e dipendenti, ecc.

Per comprendere lo stato di salute del nostro mercato del lavoro abbiamo perciò bisogno di approfondire e di chiederci, ad esempio, se le ore lavorate nel 2017 si siano avvicinate a quelle del 2008. Il Rapporto sul mercato del lavoro che l’Istat pubblica sul suo sito e che è una vera miniera di informazioni ci informa che così non è stato. Mentre l’occupazione è inferiore solo dell’1,3% a quella del 2008 le ore lavorate sono inferiori del 5,8%. Ma non basta. In un mercato del lavoro flessibile l’essere occupati può avere un orizzonte temporale che va da poche ore all’intera durata della vita lavorativa e la tendenza, in questa fase, è a una crescita delle posizioni di lavoro a tempo determinato. Tra il 2012 e il 2016 il numero dei contratti di breve durata è passato da 3 a 4 milioni.

Da che cosa dipende il fatto che in una fase di ripresa economica le ore lavorate non aumentino quanto ci si potrebbe aspettare e aumenti la precarietà del lavoro? Una prima risposta la troviamo se ci chiediamo in quali settori e in quali tipi di imprese si realizzi la maggior parte delle assunzioni. È sempre il Rapporto Istat a informarci che le circa 75.000 imprese in cui l’occupazione è cresciuta almeno del 7% nella fase postcrisi sono in prevalenza aziende di piccole dimensioni, operanti soprattutto nella ristorazione e nel commercio al dettaglio e solo in minor misura in attività informatiche, legali e contabili. Come ci si poteva aspettare, con la ripresa non si è modificata la struttura della nostra economia che continua a essere caratterizzata da unità produttive di piccole dimensioni – di cui molte di livello tecnologico medio-basso – e non è ripartita la domanda di lavoro qualificato nel settore pubblico, zavorrato da un debito che non favorisce gli investimenti.

Non è un segnale incoraggiante. Se la domanda di lavoro rimane sempre la stessa, se le imprese non crescono, se non si fanno investimenti in nuove tecnologie, il nostro paese è condannato a navigare sul pelo dell’acqua e ad andare sotto tutte le volte che arriva un’onda alta. Ma anche quando la congiuntura è positiva – come abbiamo visto – la ripresa non consente di recuperare tutto ciò che si è perduto e il tasso di crescita rappresenta la metà di quello dei paesi più sviluppati. Ovvero: con la ripresa la distanza che ci separa da quei paesi aumenta invece di diminuire.

C’è un modo per rompere questo circolo vizioso che spinge sempre più l’Italia ai margini? Sì. Esiste. Basterebbe utilizzare l’onda alta per cominciare a fare quegli investimenti strutturali che potrebbero consentirci di recuperare il ritardo: istruzione, formazione, ricerca, investimenti in alte tecnologie e in servizi efficienti. Ma si sa. Noi siamo sempre in campagna elettorale e i nostri politici sono ancora convinti che andremo a votare e voteremo per loro se ci prometteranno qualche regaluccio: una tassa in meno, un bonus in più, una nuova sanatoria. Sembra che le sirene della ripresa suonino solo per chi è sempre in cerca di «tesoretti» da dilapidare.

Immagine: via Pixabay

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