Finalmente ci siamo. Fra pochi giorni sarà il 31 ottobre, il tanto annunciato cinquecentenario della Riforma protestante. Per l’occasione la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha organizzato una giornata di festa a Roma, sabato 28 ottobre, come molte volte raccontato anche da queste colonne.
Il settimanale “Riforma” partecipa alle celebrazioni con un numero speciale, interamente dedicato a questo anno intenso che sta per chiudersi, fatto di dialogo ecumenico, di riscoperte teologiche, di bilanci sul passato e di sfide per l’avvenire delle chiese riformate. “Riforma” avrà questa settimana una tiratura supplementare e sarà distribuito anche durante la giornata di sabato a Roma.
La newsletter quotidiana ospiterà in questi giorni alcuni fra i contributi che potrete ritrovare sul settimanale. Iniziamo oggi con un articolo di William Jourdan, pastore valdese a Genova, relativo a ciò che la Riforma protestante ha prodotto, soprattutto in relazione al concetto di responsabilità. Buona lettura.
«Bisognerebbe che ci liberassimo finalmente di tutti gli slogan della sociologia protestante: rigidità morale, austerità, freddezza, ecc. […] la vita personale del protestante dovrebbe essere una vita profondamente e definitivamente felice, perché egli conosce la gioia di essere amato e di poter amare, la libertà di uno che ha varcato le porte della morte e la riconoscenza. Ma la sua è una gioia paradossale […], la gioia di vivere con Cristo e altresì la gioia di morire con lui, dunque di non potere, in nessun momento, staccarsi dalla morte del mondo e cessare di lottare per la sua vita».
Queste parole sono tratte da un libretto che Roland de Pury, pastore protestante svizzero, noto per il suo impegno in favore degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, pubblica in francese nel 1961. Il nostro autore, in questo testo che si intitola Che cos’è il protestantesimo? (pubblicato dall’editrice Claudiana nel 1964) critica gli slogan di una certa sociologia protestante, che descrive il credente evangelico, in buona sostanza, come una persona rigorosa, ma triste.
A distanza di qualche decennio, ci si può ovviamente interrogare in che misura tale descrizione corrisponda ancora alla realtà. Sicuramente, almeno nel contesto giornalistico del nostro Paese, l’immagine del protestante è ancora spesso accostata a un quadro di rigidezza morale, a tratti bigotta, per cui essere chiamati «puritani» corrisponderebbe a una sorta di insulto. Al di là delle caricature giornalistiche, a essere forse più preoccupante è il fatto che spesso uno dei termini che sempre ritornano quando si descrive l’atteggiamento di un protestante – responsabilità – venga da noi protestanti letto e interpretato secondo la categoria del dovere, una sorta di «camicia di forza» che si pensa di dover portare per poter interpretare correttamente la responsabilità protestante. In tale prospettiva, a essere esiziale non è l’espressione di un impegno rigoroso (a dire il vero, non sempre così evidente!) che si rivolgerebbe ai diversi ambiti della vita e quindi anche alla vita della comunità cristiana, ma il senso di schiacciamento che l’accompagna. Sarà davvero questo responsabilità?
La vita personale del protestante, ricorda de Pury, dovrebbe essere una vita profondamente e definitivamente felice, non perché si sottrae all’orizzonte della responsabilità, ma perché la interpreta e comprende nel quadro di quella relazione con Dio, che parte dal contesto di una grazia donata. Nel riconoscere l’amore ricevuto e la liberazione alla quale è chiamato, il credente protestante esercita già la sua responsabilità, che è prima di tutto risposta di gratitudine alla grazia immeritata di Dio in Gesù Cristo. Solo in questo spazio, uno spazio felice e gioioso, anche se non necessariamente ridanciano, la responsabilità sarà anche esercizio di quell’obbedienza concreta al comandamento di Gesù Cristo, che si esprime nel servizio al prossimo. La responsabilità non mitiga la gioia del credente per la sua fede in Cristo, ma ne mette in luce il carattere paradossale, per cui non possiamo dimenticare che l’annuncio della risurrezione è come un lampo nel cielo, che porta luce in un buio che ancora non si attenua.
La Riforma protestante ha saputo esprimere il senso della fede come gioiosa responsabilità, non nel chiuso di uno spazio sacro, ma nello spazio aperto in cui la comunità cristiana vive e testimonia. Non è troppo chiedere oggi alle chiese protestanti e a quanti a esse appartengono uno sforzo di fantasia per saper mostrare questa medesima realtà. Che la responsabilità non è una sorta di abito «da protestanti», che si possa indossare, in un certo senso, dimenticando la relazione con il Dio vivente – almeno, non è stato questo l’intento della Riforma. E che questa attitudine responsabile perde il suo significato se non si nutre di quell’affidamento a Dio, che porta felicità. La Riforma ha sicuramente prodotto, in modo più o meno intenzionale, una serie importantissima di ricadute sul mondo sociale e culturale. Tutto ciò è stato abbondantemente ricordato anche e proprio in quest’anno di festeggiamenti. Forse – e corriamo pure il rischio di semplificare un po’ troppo! – dovremmo con altrettanta forza ricordare che la Riforma ha voluto principalmente mettere in luce che proprio il discepolato cristiano, che nasce dall’annuncio dell’evangelo di Cristo, è una forma di vita felice e responsabile. Questo è stato annunciato e vissuto con convinzione. Che non sia il nostro turno di farlo?