Il titolo della conferenza, alla chiesa battista di Torino, via Passalacqua («2 ruote sono meglio di 4 - Incontro su fede e ciclabilità») forse lasciava qualche dubbio sul nesso tra l’utilizzo della bicicletta e la nostra fede evangelica. Gli oratori, rappresentanti delle istituzioni (un assessore e un consigliere regionale) e di quelle realtà della società civile impegnate nella mobilità alternativa, nonché un parroco, si sono unanimemente espressi a favore dell’utilizzo del mezzo a due ruote, anche portando importanti esperienze personali, in alcuni casi, diventate esperienze «spirituali». In me rimaneva, quindi, la domanda: di cosa stiamo discutendo? Poi, l’intervento provocatorio di Carlo Guerrieri, pastore della comunità, che in qualità di automobilista sottolinea quanto spesso, anche nel comportamento del ciclista, non sempre si ravvede quel senso civico che ci si aspetterebbe, dando per scontato che la colpa di piccoli o grandi incidenti tra auto e bicicletta sia sempre dell’autista delle quattro ruote. Intervento accolto, come ci si aspettava, con un po’ di rigidità laddove la protagonista è il mezzo più ecologico, economico e alla portata di tutti che noi conosciamo.
Eppure, io penso, proprio questa provocazione ha fatto sì che la discussione virasse nella direzione più interessante del rapporto tra società civile e appartenenza a una comunità evangelica. Più che discutere sul mezzo con cui raggiungere la chiesa, la domenica mattina (anche perché il problema grosso è volere andarci, in chiesa) forse è importante che le nostre comunità, oltre che promuovere anch’esse una mobilità sostenibile, lavorino su quelle dinamiche in cui la sopraffazione diventa il mezzo con cui l’individuo compensa il suo senso di inadeguatezza, rovesciandolo su chi si trova davanti, nella vita frenetica di ogni giorno. E la strada, qualunque mezzo utilizziamo, diventa l’arena più accessibile per praticare questa pessima attitudine.
Allora, mentre le chiese hanno (o dovrebbero avere) nel Dna questa missione, l’istanza che esse possono avanzare a chi, nella società civile, si occupa di mobilità e trasporti, è quella di cambiare il Dna delle città stesse, rendendole luogo di incontro e non di scontro, ridisegnandole a misura non solo di bicicletta, ma di umanità. Ripensare le città significa ripensare a come viverle e percorrerle e come ripristinare quel senso di appartenenza ad esse che la velocità delle automobili ci ha definitivamente tolto.
Qui, penso, si può convergere, istituzioni e chiese, per un lavoro comune e prezioso che possa portare frutti a una città della quale siamo parte e, per dirla con il profeta Geremia, di cui dobbiamo cercare il bene: «Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene» (Geremia 29:7).