Uno dei pittori più amati e riconosciuti del XX secolo è in mostra a Recanati, presso Villa Colloredo Mels, fino ad ottobre 2017. Si tratta di Joan Miró che, in questa occasione, è riconoscibile non solo come pittore ma anche come poeta e illustratore, nel caso specifico, dell’opera Le lézard aux plumes d’or, una serie di litografie realizzate nel 1971 che uniscono testo poetico e immagine.
La città di Recanati è il luogo più emblematico per ospitare questa esposizione in quanto direttamente connessa con l’eredità culturale lasciata dal suo poeta principale, ovvero Giacomo Leopardi. Un connubio che si scontra con le anime profondamente diverse dei due artisti: Leopardi da sempre simbolo dello spirito inquieto del poeta, Miró che, secondo la definizione di Tristan Tzara, era il più felice tra tutti i surrealisti.
Ne parliamo con la storica dell’arte Viviana Tessitore.
Cos’è Le lézard aux plumes d’or?
«Si tratta di una favola perfettamente in armonia con la ricerca di Miró sul racconto e sul sogno. Il titolo fa riferimento a una lucertola con le piume d’oro; ci introduce immediatamente, quindi, in un mondo immaginario, una sorta di continuazione ideale dell’Ubu Re, ma ovviamente letta in chiave surrealista. Per descriverla si è parlato di “baraonda cromatica”, e devo dire che è un’espressione quanto mai pertinente, perché ci sono le figure che fluttuano in questa tavolozza infinita di colore e fanno il verso alle parole che le accompagnano. Le parole si muovono e galleggiano come le figure. Un’opera in cui il segno diventa protagonista perché segno e disegno sono la stessa cosa».
In che modo, in questo lavoro, vediamo evolvere l’estetica del pittore?
«Miró è riconoscibilissimo, ha una cifra stilistica che non si dimentica, ma in questo caso c’è un’indagine ulteriore. Arriva a questo attraverso un percorso lungo e al suo interesse particolare per la poesia; grazie anche alle collaborazioni con i maggiori poeti del Novecento. Ha avuto un fittissimo scambio con Tristan Tzara, il padre del dadaismo, ma possiamo citare anche Jacques Prévert o Raymond Queneau. Non solo, all’unanimità è stata riconosciuta la sua capacità di illustratore dei versi poetici tanto che gli viene conferito dalla Biennale di Venezia il premio internazionale per le arti grafiche. Non si può dire che si improvvisi nell’arte dell’illustrazione, ma “illustratore” mi sento di virgolettarlo perché è proprio un artista e un poeta, più che un illustratore di libri».
Oltre a tutto questo possiamo aggiungere anche semiologo?
«Decisamente si: l’introduzione della parola all’interno del quadro è una ricerca che nei primi del Novecento fa rumore. Pensiamo ai Calligrammi di Apollinaire nei quali la parola si dispone in un disegno che asseconda il significato della parola stessa, per essere più chiari la parola onda si muove come se fosse un’onda. Sempre all’inizio del secolo c’erano i futuristi che attraverso i papier collé avevano ritagliato delle parole per incollarle all’interno del quadro. Su tutti viene in mente il libro d’artista più noto del Novecento, che è Jazz di Henri Matisse. C’è un bisogno di portare le lettere dentro il quadro, segni che sono poi immagini e parole alla stessa stregua, con lo stesso significato».
Com’è composto il percorso espositivo?
«Il percorso è interessante, perché gli allestitori si sono trovati davanti a pagine fronte/retro e per agevolare il visitatore il testo è stato traslato e messo vicino all’opera. La mostra è quindi una narrazione, una storia. È interessante perché all’interno dei versi c’è un tripudio di colori che vengono costantemente nominati, poi basta inclinare la testa per vedere accanto i suoi disegni straordinari».