Dopo che la Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi ha licenziato il suo documento «È la fine, per me l’inizio della vita». Eutanasia e suicidio assistito: una prospettiva protestante, Riforma online ha proposto ai lettori l’intervista realizzata da S. Baral per il sito www.chiesavaldese.org con il prof. Luca Savarino, coordinatore della Commissione stessa. Il documento, approvato a maggioranza e inviato alla chiese, sarà studiato da queste ultime. Esso arriva dopo quello precedentemente dedicato allo stesso tema nel 1998 (L’eutanasia e il suicidio assistito – entrambi sono disponibili sul sito www.chiesavaldese.org); un altro riferimento importante è il testo Un tempo per vivere e un tempo per morire, redatto dalla Comunione di chiese protestanti in Europa (CcpE, pubblicato dall’editrice Claudiana nel 2012). Del documento di quest’anno, che potrebbe essere discusso dal prossimo Sinodo 2017 e di cui potete trovare qui una scheda riassuntiva, abbiamo già parlato con il pastore battista Alessandro Spanu (Torino). Ora abbiamo sentito il parere anche della diacona Alessandra Trotta, metodista, che fa parte della Commissione stessa.
Il documento ha richiesto un lungo lavoro e alla fine è stato approvato a maggioranza: significa che la dialettica nelle nostre chiese è importante, ed è un bene. Su quale punto si incentra il dissenso?
È un bene che di fronte alla complessità dei problemi che la società moderna pone le nostre Chiese sentano il bisogno di fornire elementi di informazione in vista di una riflessione che parta dal riconoscimento che si tratta di questioni che coinvolgono non uno, ma molti principi e interessi tutti rilevantissimi, in tensione fra loro e che dunque impongono scelte in ogni caso drammatiche. Ed è un bene che di fronte a queste scelte drammatiche ci sforziamo tutti di pensare che non abbiamo, su fronti contrapposti, da una parte una cultura della vita e dall'altra la cultura della morte; o da una parte i misericordiosi che vedono le sofferenze dei malati nella vita reale e dall'altra i freddi legalisti che alle sofferenze della vita reale contrappongono principi astratti; ma una comune volontà di tutelare al meglio la vita e la dignità delle persone reali in un quadro di responsabilità sociale, ricercando il migliore equilibrio possibile fra valori ed interessi non del tutto conciliabili.
Ad alcuni membri della Commissione è sembrato che, proprio tenendo conto (come da premessa del nostro documento) “delle acquisizioni scientifiche, di esperienze normative e delle dinamiche sociali e culturali che si sono verificate negli ultimi anni nei paesi in cui più forte emergono le questioni inerenti il fine vita”, non si potesse oggi condividere la lapidaria riproposizione della conclusione del documento del 1998.
Sono apparsi problematici alcuni passaggi specifici, come quelli che assimilano la richiesta eutanasica o di suicidio assistito al sacrificio di chi rende la vita disponibile per la difesa della vita altrui o per l'obbedienza all'Evangelo; o vi vedono la possibile concretizzazione, da parte del malato verso la famiglia, del comandamento d'amore di Dio, che mai dovrebbe, però, potersi identificare in azioni che presuppongono che la cura di un soggetto vulnerabile sia un peso da cui dovere essere liberati.
Ma, più in generale, è sembrato da confermare l'equilibrio espresso dal documento “Un tempo per vivere ed un tempo per morire” del Consiglio della Comunione delle Chiese protestanti europee (Chiese riformate, luterane, metodiste ed unite nel nostro contesto europeo). Si tratta di un documento che tiene conto e rispetta il dramma vissuto dal malato inguaribile che ritiene non accettabile il prolungamento, anche per breve tempo, di una vita avvertita come priva di senso e afflitta da sofferenze insopportabili; così come il dramma vissuto da chi quel malato vuole aiutare; invitando ad astenersi da giudizi di fronte alle scelte estreme compiute anche da credenti, che, in coscienza, si sono posti di fronte a Dio con il loro dramma e la loro domanda di misericordia.
Cogliendo, però, in tutta la sua portata (al punto da ritenerlo non assumibile) il rischio della svolta teologica, etica, culturale (e qualcuno dice anche “antropologica”) della normalizzazione – con la sua introduzione nell'ordinamento giuridico e nel quadro culturale come opzione possibile (sia pure in certe condizioni estreme, peraltro difficili da definire in modo sufficientemente preciso) – dell'azione diretta con cui un medico procura la morte di un malato consenziente attraverso la somministrazione di un farmaco letale (eutanasia); o la prescrizione da parte del medico del farmaco letale e l'assistenza alla somministrazione da parte del malato (suicidio assistito)».
Su questo piano si colloca, invece, nel documento della Commissione, l'affermazione dell'inesistenza di una differenza eticamente significativa fra azione ed omissione almeno in alcune estreme situazioni, quale quella del malato terminale che chieda di anticipare la sua morte di poche ore o pochi giorni in alternativa al ricorso a cure palliative che contemplino anche la sedazione profonda...
«Questa affermazione non è stata da tutti condivisa. È parso ad alcuni che la qualità stessa dell'evento sia profondamente influenzata dalla diversa causalità, se posta in relazione al principio fondamentale per cui la determinazione della fine della vita umana non deve essere (non è bene che sia) nella disponibilità degli esseri umani. Questo principio (che per un credente trova il suo fondamento specifico nella convinzione che Dio sia il Signore della vita e del tempo e che a Dio si debba consegnare con fiducia la decisione sul senso ultimo di una vita e sul momento in cui questa possa considerarsi conclusa) è in realtà un principio universalmente riconosciuto, rinvenibile nelle culture più diverse e nei più diversi ordinamenti giuridici in ogni parte del mondo, sulla base di fondamenti diversi, anche non di tipo religioso.
Ebbene, rispetto a questo principio limite (qualcuno dice un “tabù”), anche nelle situazioni estreme considerate dal nostro documento appare eticamente significativa la differenza fra l'azione umana intenzionale che costituisce la diretta causa della morte (che consegue necessariamente, nel tempo e nel modo programmato); e la sospensione o non attivazione di cure (ivi compresi i trattamenti di idratazione, nutrizione e ventilazione artificiale), in conseguenza delle quali la malattia prosegue il suo corso naturale e conduce, in tempi e modi che non dipendono da scelte umane, alla morte, in condizioni comunque tali da neutralizzare o ridurre al massimo le sofferenze.
Che iter vi aspettate, ora, per il testo che è stato licenziato dalla Commissione?
«L'auspicio espresso nel nostro documento è che su un tema così delicato possa essere avviato, sia all'interno delle comunità di fede, sia nel più ampio spazio pubblico italiano, un dibattito sereno e approfondito. Continuare ad alimentare la discussione, insomma, con il metodo tipico di chiese come le nostre, nelle quali orientamenti e scelte su questioni etiche maturano in un processo allargato e partecipato di riflessione dal basso, in cui il discernimento da parte dei singoli è aiutato dalla libera espressione delle diverse posizioni, che sanno resistere alla tentazione di sconfessarsi e delegittimarsi reciprocamente.
Un compito importante, perché si ha la sensazione che le persone, nonostante l'aggressiva mediaticità del tema (o forse proprio per questo) non abbiano le idee chiare neppure sul significato dei termini.
E poi perché sono evidenti i risultati già prodotti dal dibattito degli ultimi anni: una riflessione critica di fronte all'eccessiva medicalizzazione e al dominio delle tecnologie nei momenti finali dell'esistenza umana; lo sviluppo di un concetto integrato di cura (che comprende il contenimento del dolore fisico, ma anche il supporto psicologico, la cura delle relazioni significative in adeguati contesti di vita); la battaglia per rendere tali cure integrate accessibili a tutti in condizione di equità; gli interventi giurisprudenziali - ed in molti Paesi anche legislativi - che hanno contribuito a rendere effettivi, chiarendone l'estensione, il diritto delle persone a rifiutare trattamenti sanitari che consentono un prolungamento significativo delle funzioni vitali (vita biologica), in assenza o con una drastica ed irrisolvibile riduzione delle possibilità per il paziente di relazione, movimento, espressione (la cosiddetta vita biografica). Ecco, in Italia c'è ancora molto da fare!».