Ho appreso la triste notizia della morte di Stefano Rodotà nei pressi di Vienna, a Steyr dove mi trovavo per un convegno su migrazioni e inclusione sociale, rivolto alla cittadinanza e promosso dalla Chiesa evangelica nell’ambito delle manifestazioni per il Cinquecentenario della Riforma. Steyr fu nel Medioevo un centro importante di scambi commerciali dove la comunità valdese poté vivere floridamente prima di essere sterminata. A memoria di queste drammatiche vicende, nel 1997 (a seicento anni di distanza) fu ideato un monumento contro l’intolleranza che dieci anni dopo fu messo anche a Pinerolo, davanti al tempio valdese, in un simbolico gemellaggio spirituale tra le due comunità che oggi si impegnano per l’inclusione sociale, la fraternità tra i popoli e la valorizzazione delle diversità.
Dopo l’incontro, due giornalisti della televisione austriaca mi hanno rivolto alcune domande sui valdesi oggi in Italia e mi sono ritrovata a parlare, tra le altre cose, anche dei diritti civili, delle minoranze nella storia e delle nostre iniziative in materia di laicità e di riconoscimento delle unioni civili, con cenni alla discussione sinodale di questi anni su matrimonio, genitorialità, famiglie e benedizione delle coppie (eterosessuali e omosessuali): un lungo cammino di riflessione che personalmente non avrei potuto attraversare senza i libri di Stefano Rodotà. Quella sera, leggendo i giornali su Internet, avevo appreso della sua scomparsa.
Nato a Cosenza da una famiglia di origine albanese, Rodotà compì i suoi studi a Roma dove poi visse tutta la vita in una instancabile attività politica e culturale – rivolta primariamente ai giovani – che non si limitava al suo Paese ma guardava all’Europa e al mondo: fu tra gli estensori della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea e, più recentemente, dei diritti nell’era digitale.
Alcuni titoli dei suoi libri rimangono in mente – e ci accompagneranno ancora nel tempo –, come Il diritto di avere diritti (Laterza 2013) che scrisse negli anni in cui era anche responsabile scientifico del «Festival del diritto» di Piacenza. Queste iniziative pubbliche permettevano di avvicinare tematiche quali la laicità, i beni comuni, la democrazia, la bioetica, le disuguaglianze, la dignità in modo accessibile ma approfondito e articolato. Il programma del Festival aveva un carattere partecipato affinché la cittadinanza potesse esprimersi e ragionare su tematiche anche difficili, creando quel circolo virtuoso della formazione continua, che in questo paese scarseggia ma che in quelle occasioni poteva germogliare e portare frutto. Come a «Biennale democrazia» a Torino, e gli esempi sono numerosi. Aveva persino tenuto una conferenza sul diritto alla conoscenza che ben esprime il suo impegno degli ultimi anni: una vicinanza all’antropologia culturale e alle scienze sociali con cui faceva dialogare il diritto per analizzarne le trasformazioni nel tempo e anche attraverso le culture: l’interdisciplinarietà alimenta il confronto e dona la possibilità di affrontare i fenomeni sempre cambiando il punto di vista, per una visione prospettica e in divenire.
Era uno studioso, un grande giurista, impegnato nel dibattito pubblico e nel suo ultimo libro Diritto d’amore (Laterza 2015) aveva espresso pienamente il carattere sociale e antropologico del diritto che interviene nella vita delle persone ma ne è anche trasformato. Era questa passione per la vita che lo ha reso uno studioso vicino alle persone, disponibile al confronto e al dibattito su tematiche di frontiera che sapeva spiegare e analizzare con una finezza intellettuale e una chiarezza difficile da trovare altrove.
L’ultimo libro che ho letto recentemente è stato Solidarietà. Un’utopia necessaria (Laterza 2014), una lettura breve ma intensa per trovare parole e concetti non banali che danno senso a un’intera esistenza. Grande è la riconoscenza nei suoi confronti. Stefano Rodotà lascia un vuoto incolmabile ma anche – come è stato ripetuto in questi giorni – un’eredità da raccogliere per il futuro.