Giovedì 15 giugno la prima sezione della Corte di Cassazione ha dato l’autorizzazione per l’iscrizione nell’anagrafe del Comune di Venezia di un bambino, figlio di due donne, nato all’estero con fecondazione eterologa.
Tutto era cominciato il 5 novembre 2014, quando le due madri chiesero al tribunale di Venezia la “rettificazione”, o sostituzione, dell’atto di nascita del figlio, emesso nel Regno Unito e trascritto nei registri dello stato civile di Venezia.
L’ufficio dello stato civile di Londra, infatti, aveva chiarito che la registrazione del minore come figlio di una sola delle due madri non poteva essere considerata valida, in quanto il bambino doveva essere registrato anche come figlio dell’altra donna, di cui assumeva il cognome, «pur non avendo – come recita la sentenza della Cassazione – alcun rapporto biologico con lui». Sulla base di questa richiesta, la coppia aveva quindi avviato il percorso con l’anagrafe di Venezia, che aveva però rifiutato l’istanza, sostenendo che la rettificazione fosse «contraria all’ordine pubblico italiano».
Poco meno di un anno dopo, il 19 ottobre 2015, la scelta dell’anagrafe veneziana venne confermata anche dalla Corte d’Appello, che decise di rigettare il reclamo. Stando a quanto affermato dal secondo livello della giustizia italiana, infatti, la richiesta di trascrizione non era una rettificazione, ma era legata «alla validità in Italia del matrimonio tra persone dello stesso sesso», definendo la giurisprudenza italiana «granitica nell’individuare nella diversità di sesso tra i nubendi un requisito indispensabile per l’esistenza del matrimonio civile».
Tuttavia, già nella sentenza di Appello, si ammetteva che in alcuni Paesi europei il riconoscimento di unioni civili e di matrimonio tra persone dello stesso sesso fosse un dato di fatto e che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’articolo 9 garantisse il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia, ma precisava anche che questo può avvenire soltanto in accordo con le leggi nazionali. Nello stesso dispositivo si ricordava poi che, «mancando a livello europeo ed extraeuropeo una disciplina sostanziale e cogente delle unioni dello stesso sesso non si può prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelti dai vari Stati».
Una volta arrivato in Cassazione, il caso ha portato a un esito opposto, pur senza contraddire il secondo grado: secondo i giudici della corte suprema italiana, infatti, la registrazione non può essere ostacolata, perché è stata «effettuata e perfezionata all’estero e certificata dall’atto di stato civile di uno Stato straniero» e quindi «non contraria all’ordine pubblico internazionale».
«La Cassazione – spiega Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni – afferma un principio di uguaglianza in linea con l’articolo 3 della Costituzione, ma parte dall’interesse preminente del bambino, quindi dichiara che quel certificato trascritto deve contenere entrambi i cognomi», facendo quindi seguito alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, che ha fatto più volte richiamo a questo principio nel nome del diritto del minore al riconoscimento e alla continuità delle relazioni affettive anche in assenza di vincoli biologici e adottivi all’interno del nucleo familiare. Nel caso specifico la Cassazione ha voluto ribadire che «la nascita del bambino costituì un progetto condiviso della coppia, espressione di affetto e solidarietà reciproca».
«Questa sentenza – prosegue Filomena Gallo – segna una contraddizione molto marcata in un momento in cui le persone si spostano con molta facilità all’interno di un circuito internazionale e insieme a loro si spostano i loro diritti e tutele. Questa coppia si è sposata all’estero e ha fatto ricorso a una tecnica di fecondazione assistita che è l’eterologa, ripristinata nel nostro Paese nel 2014».
Il problema, tuttavia, è che la Legge 40 non prevede che due persone dello stesso sesso possano accedere alla fecondazione assistita. La riforma di questa norma, in vigore dal 2004 e già oggetto di un referendum abrogativo che nel 2005 non raggiunse il quorum, è in questo periodo in Commissione sanità al Senato. Martedì 13 giugno la ministra dell’Istruzione e firmataria del disegno di legge, Valeria Fedeli, ha voluto richiamare l’attenzione sulla questione, affermando che «la politica deve riflettere, non può essere che siano i giudici a modificare poco per volta le leggi. In quanti sanno che la Legge 40 è già stata smantellata dai giudici?». La discussione, che non è ancora arrivata in aula, dovrà recepire almeno in parte anche la sentenza di questi giorni. «Con questo procedimento – afferma infatti Filomena Gallo – si crea un precedente importante che però non ha portata generale, perché le sentenze riguardano solo quella coppia. Solo la Corte Costituzionale può emanare una sentenza con portata generale. Intanto però si apre la strada per arrivare a quel livello e aggredire nuovamente la Legge 40 su questo divieto».
La contraddizione del sistema attualmente in vigore è stato accentuata con l’approvazione della legge sulle unioni civili, che dal 2016 riconosce diritti alle coppie dello stesso sesso senza però affrontare la sfera riproduttiva. Questo aspetto potrà essere affrontato con un percorso legislativo, anche se la fragilità della maggioranza parlamentare, e quindi la natura precaria della legislatura, fanno pensare che questa discussione sia destinata a ripartire dall’inizio dopo eventuali elezioni anticipate. La senatrice Monica Cirinnà, a cui si deve il testo sulle unioni civili, ha sollecitato nei giorni scorsi il Parlamento su questo tema, ribadendo che sarebbe stato preferibile arrivare lo scorso anno a una legge sulle unioni civili capace di garantire il diritto di piena genitorialità che stanno affermando i tribunali anche alle coppie di persone dello stesso sesso, ma che comunque bisogna tornare in aula per farlo ora. «I tribunali – aggiunge la segretaria dell’Associazione Coscioni – come sempre hanno aperto la strada con un’affermazione di diritti della coppia e dei bambini, quindi ora il legislatore non deve fare altro che trasformare in norma quello che affermano i tribunali. Speriamo che la Legge 40 sia riformata questa volta dal Parlamento senza aspettare l’intervento dei tribunali, che purtroppo devono correggere delle cattive leggi».
Il tema divide ormai da molti anni e spesso è stato sacrificato in nome della tenuta politica, oppure affermando che le priorità fossero altre, in modo non diverso dalle discussioni sulla cittadinanza o sulla libertà. «La questione – conclude Filomena Gallo – non è secondaria, bisogna pensare al futuro e pensare anche che i diritti delle persone, quelli sanciti dalla Corte Costituzionale e dalle carte internazionali, non vanno applicate ad intermittenza, sono tutte esigibili e tutte sullo stesso piano contemporaneamente. Un Paese che non investe nel futuro, nella famiglia, nei figli, è un Paese che non investe nell’economia che cresce e non investe politicamente sui propri cittadini. Forse la politica dovrebbe tenere a mente questo concetto».