Pochi giorni fa, L’Espresso ha pubblicato sul proprio sito alcune informazioni fornite da uno degli avvocati che stanno seguendo il caso Regeni. Nell’articolo si racconta di come il ricercatore italiano potrebbe essere stato tradito da persone a lui molto vicine. «Il tema di fondo – sottolinea Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty Intenational – rimane sempre quello di accertare i responsabili materiali dell’arresto, della sparizione, della tortura e dell’omicidio di Giulio. È chiaro che elementi di contorno aiutano a ricostruire tutta la vicenda: del resto la stessa avvocata della famiglia Regeni in una conferenza stampa due mesi fa aveva detto che c’era un clima di tradimento intorno al ricercatore e questa notizia può essere collocata in quell’ambito». Intanto in Egitto sono stati bloccati 63 portali di informazione online o app per smartphone poiché ritenuti responsabili di favoreggiamento al terrorismo e di diffondere notizie false.
Sembra che il regime egiziano, oltre alla verità, offuschi anche la ricerca della verità. È così?
«È un grande problema che si stenta a riconoscere, perché sempre di più la storia di Giulio viene isolata dal contesto e questo consente di pensare di poter scaricare la responsabilità, per esempio sull’ambasciatore, che qualcosa farà. Ma questa è una posizione ipocrita e cinica. Il problema oggi e domani è che le voci indipendenti, sia dell’informazione online sia tra le associazioni per i diritti umani, rischiano di non esserci più. Questo renderà quel Paese ancora più inattaccabile dal punto di vista delle critiche sui diritti umani, perché verranno zittite tutte le voci che, tra mille difficoltà, ce lo stanno raccontando».
Ancora a proposito dei siti internet bloccati, è giusto immaginare che senza informazione le violazioni saranno sempre più nascoste?
«Sì, la stampa e le televisioni già ora sono soggiogate al potere del presidente al-Sisi o quasi, e l’ultima frontiera di libertà che è rimasta in Egitto era costituita dai portali online, come Mada Masr o altri: se chiudono anche questi, nel Paese nessuno saprà più nulla su come si comporta il Governo e chi proverà a fare informazione avrà sempre più questo stigma di minaccia alla sicurezza nazionale, sostegno al terrorismo e così via, che sono poi i motivi fumosi e pretestuosi con cui si sta facendo l’ennesimo giro di vite sull’informazione online».
Anche la ricerca universitaria, come quella che conduceva Regeni, sarà sempre più difficile?
«Certo: l’uccisione di Giulio ha avuto l’effetto di intimidire molti, egiziani o internazionali nell’occuparsi di un tema così sensibile [come quello del ruolo dei sindacati nella rivoluzione del 2011, ndr]. Questo vale ancora di più per i movimenti e le organizzazioni della società civile che dal 2011, pochi mesi dopo che Mubarak fu spodestato, sono entrati nel mirino dell’inchiesta giudiziaria 173 che a oggi ha prodotto chiusure di associazioni, congelamento di beni patrimoniali, divieti di espatrio per decine di attivisti e che sta recintando la parte migliore di quel Paese in una gabbia procedurale di cui non si vede la fine».
Nel nostro Paese, invece, continua la mobilitazione della società civile per la #veritàperGiulioRegeni?
«Sorprendentemente sì: non immaginavamo che la campagna potesse andare avanti così spedita, con così tanto sostegno e solidarietà. Questo non è merito nostro, ma delle persone che vedono in Giulio un modello, così come nei suoi genitori o nella loro avvocata. Dal 25 giugno al 3 luglio in Piemonte ci sarà un picco di iniziative nella “Settimana per Giulio” in cui le circoscrizioni di Torino si passeranno lo striscione, realizzando degli eventi per chiedere ancora una volta la verità».