Il calo delle contribuzioni dei membri di chiesa e dei simpatizzanti è tema da anni al centro delle riflessioni delle chiese valdesi e metodiste, alle prese con una lenta ma progressiva erosione delle risorse a disposizione. Ciò comporta un continuo esercizio di razionalizzazione e di riorganizzazione del proprio operato, condizione che deve però subire un’inversione di rotta per non accentuare le sofferenze che già si registrano in alcune realtà.
Anche per questi motivi gli organismi esecutivi stanno valutando nuovi strumenti per ovviare al processo in corso. Fra questi c’è il percorso formativo volto ad avviare giovani alla professione di fundraiser, di raccoglitore di fondi. Un progetto voluto da Tavola valdese e Commissione sinodale per la diaconia proprio per aggiornare competenze e modalità di azione all’interno delle comunità locali.
Ne abbiamo parlato con il moderatore della Tavola valdese, il pastore Eugenio Bernardini.
Fundraising, una novità per le chiese valdesi e metodiste?
«Il termine inglese fundraising significa raccolta fondi per cui no, non è una novità per il nostro mondo. Le contribuzioni volontarie dei fedeli, degli amici, dei sostenitori, sono un tratto identitario fondamentale di tutto il protestantesimo e il mondo evangelico, perché rendono la chiesa libera nella sua missione nel mondo, senza padroni cui rispondere. Da questo punto di vista non si può dire che sia una novità. La novità è il metodo. Ci siamo resi conto oramai da tempo di essere in affanno su questo aspetto così fondante della nostra chiesa, e al contempo abbiamo compreso di utilizzare metodi antichi, che hanno funzionato benissimo in una determinata cultura e società, più stabile, capace di trasmettere i propri valori per tradizione famigliare. Nel nostro tempo, in una società più “liquida”, la fedeltà contributiva è entrata in crisi, quindi abbiamo ritenuto necessario sperimentare nuove vie».
Otto per mille e contribuzioni, due piani differenti?
«Totalmente. Quando ci fu il lungo e tormentato dibattito relativo all’accettazione o meno dell’otto per mille dell’Irpef, si discusse anche molto sull’aspetto delle contribuzioni volontarie dei membri di chiesa, perché abbiamo sempre ritenuto che le organizzazioni ecclesiastiche dovessero autofinanziarsi. Quando infine venne presa la decisione di accettare l’otto per mille, la scelta di non usare un centesimo per attività di culto fu la logica conseguenza delle nostre posizioni storiche. Ecco perché con l’otto per mille finanziamo progetti umanitari in Italia e nel mondo, fra cui anche le opere diaconali delle nostre chiese ( che però continuano tutte a mantenere nel bilancio una quota significativa proveniente da donazioni), le strutture che offrono servizi al prossimo, ma nulla viene utilizzato per il mantenimento del nostro apparato».
Che però costa
«Certo. Dobbiamo riconoscere che negli ultimi dieci venti anni segniamo un po’ il passo, senza risorse economiche la missione della chiesa non può andare avanti. Si vive anche di sistemi organizzativi, di personale, di pastori, le risorse sono necessarie, da qualche parte bisogna reperirle.
Nella volontà di rimanere nel solco della raccolta volontaria, la cosa principale è motivare le persone al dono, alla contribuzione funzionale alla sopravvivenza della chiesa. Rendere nuovamente chiaro che la gioia dell’appartenenza si manifesta anche contribuendo alla gestione delle nostre mura, delle nostre strutture, degli stipendi dei nostri pastori».
Il modello è quello delle realtà anglosassoni, e ancora più vicino a noi, della Chiesa avventista, anche in Italia, che da anni sta ragionando in tal senso. A chi vi siete ispirati?
«Un po’ a tutti questi soggetti. Abbiamo fatto ricerche, ci siamo confrontati con esperienze all’estero. Ogni paese ha non solo la propria tradizione, ma anche una propria cultura economica e fiscale. In Italia è più difficile far comprendere la necessità della responsabilità personale perché non fa parte della nostra cultura verticistica, in cui ci si aspetta la soluzione da chi sta in alto, sia esso lo Stato e la chiesa, che da noi si identifica con quella cattolica, vista come sorta di servizio pubblico, con i propri beni, le proprie finanze; e allora perché io cittadino dovrei pagarla per il “servizio” che mi offre. Ecco, noi scontiamo questa tradizione. Ci siamo quindi rivolti alla Chiesa avventista in Italia, più avanti di noi su questi ragionamenti, che da anni organizza corsi di fundraising, e abbiamo avviato una collaborazione in materia».
Cosa hanno fatto e cosa faranno i cinque ragazzi che stanno partecipando al progetto
Intanto abbiamo voluto dare una rappresentanza dislocata un po’ su tutto il suolo italiano, perché anche il nostro paese è segmentato e diversificato per aree geografiche, anche dal punto di vista della comprensione e della capacità di raccogliere fondi. Il corso di quest’anno credo abbia raggiunto gli obiettivi prefissati, e cioè di offrire ai ragazzi e ragazze un quadro generale di esperienze, e la possibilità di incrementare e razionalizzare la raccolta fondi delle nostre chiese anche con semplici strumenti statistici come un’anagrafe razionale dei membri di chiesa, degli amici, dei sostenitori.
Altro punto fondamentale è poi quello della corretta comunicazione, comunicare bene perché si raccolgono denari per fornire una motivazione più consapevole ai nostri interlocutori.
Nulla di rivoluzionario, però un uso più razionale della comunicazione ,delle informazioni, per migliorare un sistema che alla base già abbiamo e conosciamo. L’ anno prossimo sarà di verifica su questa formazione, con progetti concreti per migliorare raccolta fondi a livello di chiese locali, e anche a livelli di istituzioni diaconali».
Non è tutto nero all’orizzonte quindi
«Io continuo a considerare un miracolo quello che avviene annualmente, che migliaia di persone con contribuzioni più o meno regolari in base alle disponibilità portino qualche milione di euro alle nostre chiese, necessari per continuare a esistere, a evangelizzare, a svolgere la nostra missione nel mondo. Ma il calo è sotto gli occhi di tutti. Per questo ci dotiamo di altre modalità di azione, senza ansie né manie persecutorie, sempre nel solco del nostro spirito di grande libertà, in cui ciascuno in cuor suo deve decidere la misura del dono. Ci preoccupiamo soltanto di spiegare bene l’uso che facciamo del denaro ricevuto, nella speranza soprattutto di motivare le nuove generazioni che hanno un po’ perso questa importante consapevolezza».