Nell’anno che ricorda il cinquecentenario della Riforma protestante, un importante volume permette di farsi un quadro degli studi più aggiornati sull’argomento*. Si tratta di un’introduzione caratterizzata da notevole capacità di sintesi e apparato critico aggiornatissimo, scritta da una specialista ma rivolta al più vasto pubblico. Non è facile riassumere un testo di tale spessore in poche righe, ma, da semplice lettore, alcuni aspetti mi paiono particolarmente interessanti.
Il primo è quello di prendere in esame approfonditamente anche la Riforma nel nostro paese «nella convinzione della centralità della Riforma […] anche per l’Italia, malgrado il suo fallimento» (p. 9). Ciò che emerge è l’impronta originale della Riforma italiana dovuta alla situazione della penisola caratterizzata da particolarismo politico e apertura degli scambi culturali e commerciali verso l’Europa. Il movimento riformatore italiano fu un fenomeno trasversale «accomunando nella vita religiosa delle conventicole uomini e donne di ogni ambiente e ceto» (p. 152). Fu ricettivo delle idee sia della Riforma «magisteriale» (cioè dei fondatori delle chiese istituzionali) sia della cosiddetta Riforma «radicale» (cioè di quella grande galassia che non si riconosceva nelle chiese dei principali riformatori) e, soprattutto, fu fortemente incline allo sperimentalismo dottrinale e a una rilettura «radicalizzante» delle idee provenienti da oltralpe. In sostanza dunque «la Riforma italiana rappresentò un elemento di grande vitalità nella storia della Penisola. Raggiunse l’acme della sua partecipazione popolare negli anni Cinquanta per scomparire negli anni Ottanta del Cinquecento, senza lasciare tracce nella società, a causa del trionfo della Chiesa della Controriforma e dei suoi strumenti repressivi e di dominazione, degli uomini e degli Stati italiani» (p. 154).
Secondo elemento: una notevole attenzione per la Riforma «radicale» o «ala sinistra» della Riforma, intesa come «fucina di idee» che condusse un confronto-scontro duraturo con la Riforma «magisteriale». Tale confronto non venne mai completamente meno, nonostante la durissima persecuzione che essa subì, con esiti fecondi per entrambe e in particolare per le idee radicali che «contribuirono alla nascita di una società libera, democratica, pluriconfessionale sulle due sponde dell’Oceano e alla costituzione del patrimonio di valori proprio della nostra civiltà» (p. 119).
Un terzo aspetto è lo spazio dato alla storia dell’idea di tolleranza e della lotta contro la persecuzione per motivi religiosi che vide protagoniste soprattutto personalità della Riforma «radicale» che volevano difendere gli spazi di libertà di coscienza: Castellione, Curione, Pucci, Aconcio sono solo alcuni fra i nomi citati. Molte idee allora espresse ebbero uno sviluppo fecondo nel lungo cammino per l’affermazione dell’idea della libertà di coscienza.
Il confronto-scontro tra realtà religiose è un quarto punto molto interessante: il pluriconfessionalismo costrinse di fatto (più che di diritto) spesso le autorità a trovare strade che rendessero possibile la convivenza. Si possono citare, per esempio, alcuni consigli cittadini in Francia che misero in campo esperimenti di amministrazione congiunta fra ugonotti e cattolici, oppure le divided communities, che nell’Impero e in Svizzera permisero di condividere addirittura gli stessi spazi sacri e pubblici; per non parlare del pluriconfessionalismo in molti paesi dell’Europa orientale.
Ultimo elemento da ricordare, che attraversa tutta l’opera, la concezione della Riforma come causa di trasformazione: Lutero, Zwingli e Calvino provocarono la rottura dell’unità del corpus cristiano, da cui scaturì una società del tutto nuova e pluralistica. La Riforma «accelerò processi di trasformazione profondi della realtà degli Stati, della Chiesa, dell’economia, della società e della cultura in generale, che mutarono il volto dell’Europa» (p. 45), possiamo affermare, in modo permanente.
* Lucia Felici, La Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento. Roma, Carocci, 2016, pp. 326, euro 29,00.