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Io non morirò, anzi vivrò e racconterò le opere del Signore
Salmo 118, 17

Dopo aver dato loro molte vergate cacciarono Paolo e Sila in prigione. Verso la mezzanotte essi, pregando, cantavano inni a Dio; e i carcerati li ascoltavano
Atti 16, 23.25

Pregare e cantare inni a Dio dopo essere stati fustigati. È questa la reazione di Paolo e Sila che vengono messi in prigione con l’accusa di aver turbato la città e predicato riti inaccettabili per i Romani. Pregare e cantare inni a Dio non fa dimenticare le frustate, ma fa prendere coscienza del perché sono state ricevute. Pregare e cantare inni a Dio non alleggerisce la condizione di prigionieri, ma conferisce la libertà di poter lodare il Signore. Non ci sono catene, non c’è dolore, non c’è alcun impedimento che possa togliere la libertà ai cristiani di proclamare le grandi opere di Dio. Le preghiere e i canti di Paolo e Sila non sono l’espressione della disperazione, ma l’effetto dell’amore. Un amore contagioso che arriva agli altri carcerati e che in un qualche modo prende possesso di loro che insieme ai due apostoli potranno gioire della liberazione che viene dall’alto.

Nel mondo sono tanti ancora oggi i cristiani che in un qualche modo «turbano» e che predicano quello che altri non vogliono sentire. Nel 2016 sono stati uccisi a motivo della loro fede oltre 90.000 cristiani e più di 500 milioni non sono liberi di proclamare la loro fede in Gesù. La loro condizione di prigionia fisica o psicologica, non fa cambiare però la loro fede e come Paolo e Sila cantano inni a Dio e pregano, affinché il mondo, che vive con loro la stessa prigionia, possa esultare davanti alla loro liberazione. Ogni cristiano ucciso per la fede, ogni fedele messo a tacere per il suo credo rappresenta la morte e la prigionia di tutta la cristianità. Che l’amore contagioso dei perseguitati, come un’epidemia inarrestabile, colpisca anche noi e ci spinga a pregare e cantare inni a Dio anche quando tutto sembra morte e prigionia. Amen!

Immagine: di ChristinLola, via istockphoto.com