Dopo mesi di discussioni, la scorsa settimana la Camera dei Deputati ha finalmente approvato la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Molto è stato detto e scritto in proposito, anche su questo giornale. Nella sua versione originaria, il testo era semplice, ragionevole e andava a colmare una grave lacuna legislativa. Il passaggio parlamentare ha introdotto varie modifiche che hanno complicato il testo, senza tuttavia stravolgerne i principi fondamentali. Questo perché, correttamente, la legge continua a mettere al centro della relazione terapeutica il consenso informato del paziente e altrettanto correttamente interpreta le Dat come un’estensione – ora per allora – del consenso informato stesso, garantendo in tal modo al paziente la facoltà di non intraprendere o di sospendere i trattamenti sanitari. In tal modo, la legge non legalizza affatto l’eutanasia, come qualcuno sostiene, ma è semplicemente conforme all’articolo 32 della Costituzione, che garantisce la libertà di cura.
In secondo luogo, la legge appena approvata ha il merito di collocare l’Italia sullo stesso piano della maggior parte dei paesi europei e occidentali anche per quanto riguarda la possibilità di sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiali, che correttamente vengono intese come misure terapeutiche a tutti gli effetti. Il caso più emblematico riguarda i pazienti in stato vegetativo persistente. In terzo luogo, il testo applica retroattivamente le disposizioni dell’attuale legge ai documenti depositati presso il Comune di residenza o presso un notaio prima dell’entrata in vigore della legge stessa. Il che significa che gli sforzi delle chiese evangeliche che negli anni passati hanno istituito vari sportelli per il testamento biologico sul territorio italiano non sono stati vani.
I mutamenti più significativi, ampiamente riportati dagli organi di stampa, riguardano il comma 6 e il comma 9 dell’articolo 1, che vanno letti congiuntamente. Nel comma 6 è scritto che il medico non ha obblighi professionali di fronte ai pazienti che esigano «trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali». Nel comma 9 si dice che è compito di qualsiasi struttura sanitaria, pubblica o privata, garantire «con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge». Il che significa che, pur garantendo al singolo medico la facoltà di operare in accordo con i dettami della deontologia professionale e della coscienza individuale (una sorta di diritto all’obiezione di coscienza, si potrebbe dire), la legge impone alla struttura sanitaria l’obbligo di mettere a disposizione dei pazienti il personale e le tecniche che consentano di garantire il rispetto del loro diritto all’autodeterminazione. Il principio è in sé corretto, anche se, nella pratica, occorrerà vigilare affinché il diritto all’autodeterminazione dei pazienti che decidono di interrompere i trattamenti venga effettivamente garantito. Affinché questo avvenga, inoltre, sarà necessario istituire un registro nazionale telematico delle Dat, un punto rilevante su cui, per ora, la legge tace.
Come protestante, non guardo con sospetto all’estensione della libertà individuale e sono consapevole di vivere in una società pluralistica in cui le norme fondamentali non devono essere espressione di una visione del mondo improntata a una fede particolare. Per questo motivo, mi auguro che questa legge possa presto essere approvata in maniera definitiva. L’esperienza passata, tuttavia, induce alla cautela: per un giudizio definitivo occorrerà attendere i prossimi passaggi parlamentari.