Martedì 11 aprile la Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Federazione nazionale lavoratori agroindustria (Flai-Cgil) hanno siglato un accordo secondo cui il sindacato si farà carico delle spese legate all’accoglienza di una delle famiglie di profughi siriani in arrivo in Italia grazie ai corridoi umanitari. Il progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio ha portato in Italia 700 profughi particolarmente vulnerabili dando loro l’opportunità di non affidarsi alle reti di tratta e sfruttamento. Ne parliamo con Jean René Bilongo, giornalista e sindacalista di Flai-Cgil a livello nazionale.
Perché questa idea?
«Noi siamo una federazione della Cgil che si misura quotidianamente con le sfide dell’accoglienza. Abbiamo organizzato grandi mobilitazioni a livello mediterraneo, coinvolgendo i sindacati delle sponde del mare e ci siamo misurati con l’impellenza di un’accoglienza dignitosa: abbiamo quindi ritenuto utile adottare una famiglia che arriva in Italia nell’ambito dei corridoi umanitari. Questa è un’iniziativa encomiabile e non possiamo che accompagnare questo percorso anche per dare un segnale contro la logica dei muri che pervade l’Europa, e ci siamo quindi resi disponibili ad accompagnare questo percorso di inclusione di una famiglia siriana».
Quali saranno le modalità di questo accompagnamento?
«Le modalità ci sono state prospettate dalla Federazione delle chiese evangeliche, dalle bravissime operatrici di Mediterranean Hope, e per ora aspettiamo che la famiglia, che è in corso di individuazione in Libano, arrivi. Noi ovviamente non scegliamo le persone, ma vorremmo che avessero dei profili che si addicano ai nostri settori di riferimento, per una fase successiva di questo percorso di inclusione sociale».
Ha detto che vivete quotidianamente le sfide dell’accoglienza: quali sono?
«Sono due grosse piaghe, il caporalato e lo sfruttamento, insieme alle condizioni di vita indecenti dei lavoratori in agricoltura. Noi abbiamo messo in campo un modus operandi che chiamiamo “sindacati di strada”, per i quali ci siamo dotati di mezzi in tutta Italia per andare incontro ai lavoratori laddove vivono, si aggregano e cercano lavoro alla giornata. Molti di loro, migranti ma non solo, vanno in cerca di lavoro agli incroci delle strade, per esempio. Una situazione di illegalità, che genera sfruttamento su vari piani. Noi andiamo incontro alle persone, raccogliamo le denunce e facciamo il possibile per non farle sentire sole, perché la solitudine è distruttiva in queste situazioni. Insieme a questo abbiamo istituito le “case dei diritti”, strutture ad hoc che servono come punto di riferimento per i lavoratori in agricoltura, e poi abbiamo avviato un lavoro di cooperazione con i paesi di origine di molti lavoratori migranti: a livello sindacale abbiamo sportelli informativi di prevenzione e assistenza in Tunisia, in Romania e in Senegal, a breve in Bulgaria, in Marocco e in Burkina Faso. Questa organizzazione ci permette di prevenire le derive dello sfruttamento».
Dare alle persone la possibilità di arrivare attraverso canali legali come i corridoi umanitari, significa anche bloccarne lo sfruttamento sul mercato del lavoro?
«Dopo alcune tragedie nel Mediterraneo, invocammo la necessità di istituire corridoi umanitari, perché queste persone in fuga da situazioni drammatiche finiscono nelle reti dei trafficanti e spesso si trasformano in lavoratori sfruttati. I corridoi sono una straordinaria risposta, perché fanno arrivare queste persone in sicurezza e c’è un follow-up quotidiano che va garantito, in modo che il percorso di inclusione sociale civile economica e lavorativa non abbia incrostazioni indecenti. È necessario farlo, poiché quando si arriva per vie illegali il rischio è enorme. I corridoi umanitari vanno catalizzati e sostenuti».