Il 20 marzo a Melendugno, in Salento, si è aperto il cantiere del Tap, sigla che indica il Trans Adriatic Pipeline, la terza parte di un gasdotto che dovrebbe collegare i giacimenti dell’Azerbaijan con i Paesi dell’Unione europea. In questa fase i lavori prevedono l’eradicazione degli ulivi lungo il tracciato che approderà nella località di San Foca.
Tuttavia, appena 24 ore dopo, martedì 21 marzo, al secondo giorno di apertura, i manifestanti che si oppongono all’opera sono riusciti a bloccare i lavori portando fino alla sospensione delle attività del cantiere, concordata dalle aziende e dagli amministratori locali.
Il tratto italiano del Southern Gas Corridor, iniziativa della Commissione europea per importare gas dall’area del Mar Caspio, era stato al centro del terzo meeting dell’Advisory Board tenutosi a Baku alla fine di febbraio, quando il presidente azero Aliyev aveva espresso le sue preoccupazioni per i ritardi nei lavori. «La fortissima accelerazione delle ultime settimane voluta dal governo italiano – racconta infatti Elena Gerebizza, dell’associazione Re:common, che segue lo sviluppo dell’opera sin dall’inizio – è sicuramente conseguenza del recente incontro che c’è stato a Baku». In quell’occasione il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, aveva voluto dare rassicurazioni, ma secondo numerosi esponenti delle amministrazioni locali e della società civile, non avrebbe centrato il punto. «Da una parte – continua Gerebizza – le élites guardano alla situazione come a un problema politico, cioè si dice bisogna trovare una soluzione politica in Italia, ma in realtà va preso atto di quello che dicono sin dall’inizio il comitato No Tap e la commissione di tecnici istituita dal comune di Melendugno, esperti e professori che hanno lavorato a titolo gratuito per il Comune nella revisione di tutto il progetto: ci sono problemi reali legati alla progettazione di questo gasdotto, che si dice essere un’opera a impatto zero, che lascerà tutto esattamente come prima, ma che in verità sembra essere un progetto pieno di lacune e che rischia di segnare in maniera definitiva quel territorio».
Quali sono le garanzie in termini economici e di efficacia?
«Questa è la vera domanda, è quella che noi dall’inizio abbiamo contestato. L’Azerbaijan si è fatto grosso parlando di grandi riserve di gas che però nel tempo si sono rivelati non così imponenti.
Questo è uno degli aspetti positivi di questi ritardi italiani: dal 2005-2006, quando si è iniziato a parlare di questo progetto, fino a quando poi è stato presentato per davvero, in molti hanno messo in discussione le riserve di gas dell’Azerbaijan, da ultimo il dipartimento energia dell’Oxford Institute, di fatto senza avere alcuna rassicurazione. In effetti sembra che il paese abbia meno gas di quello che dice di avere e già nell’ultimo anno si è ritrovato a dover comperare gas dalla Russia per tener fede agli impegni già presi di vendita di gas. A ben vedere, sembra che il progetto del corridoio sud serva solamente per entrare nella seconda fase di esplorazione, per accedere alle riserve più grandi nel Mar Caspio. Fin dall’inizio la Commissione europea puntava a costruire questo gasdotto con l’intenzione di accedere alle riserve di gas in Turkmenistan, cosa che nel corso del tempo non è avvenuta, per cui il rischio che si corre è che l’Europa, i contribuenti europei e i contribuenti italiani, pagheranno la costruzione di questo progetto almeno per una buona parte. Loro puntano ad avere più di un terzo dei costi coperti dai finanziamenti pubblici di varia forma più la garanzia sul capitale privato, è un progetto che costa 45 miliardi, lo ricordiamo, e poi alla fine magari nel giro di pochi anni dopo la costruzione non c’è più gas da trasportare».
Forse il fatto che il quadro geopolitico sia mutato negli ultimi 10 anni potrebbe rallentare quest’opera?
«Secondo noi dovrebbe permettere a tutte le parti coinvolte di rimettere in discussione la dimensione strategica di quest’opera e dovrebbe permettere alla stessa Commissione europea di ripensarci, perché sicuramente la Turchia oggi non è un partner affidabile, ma nemmeno l’Azerbaijan lo è: in questi due Paesi in questo momento non c’è nessun tipo di forza indipendente, perché i giornalisti, gli avvocati, gli attivisti, qualsiasi forma di società civile, sono impossibilitati ad avere le informazioni necessarie a capire che cosa stanno facendo realmente i governi di questi Paesi in merito al gasdotto ma non solo, diciamo in un contesto più ampio nessuno è in grado di dire che cosa sta succedendo realmente in merito a tutti gli espropri di terra. Teniamo conto che sono oltre 2000 km di gasdotto solo in Turchia, si attraversano per esempio tutta una serie di realtà a maggioranza curda, per cui c’è una complessità enorme».
Che tipo di consapevolezza c’è in questi paesi?
«Praticamente nulla. In Azerbaijan abbiamo visitato alcuni luoghi nei quali per esempio la Bp, una delle società concessionarie, diceva di aver fatto delle consultazioni, ma la gente non sapeva di che cosa stavamo parlando. Questo è un progetto che si sta costruendo direttamente sulla testa delle persone senza che siano fornite quelle informazioni minime per capire che cosa stia succedendo e quali siano i loro diritti in questo contesto. Il caso italiano è emblematico, perché è lo specchio di quello che sarebbe potuto succedere in qualunque altro luogo attraversato da questo gasdotto se solo le persone avessero avuto la possibilità di avere tutte le informazioni e la libertà di esprimersi in merito alle stesse, cosa che non sta avvenendo oggi e non pensiamo che succederà nel prossimo futuro».
Ma quest’opera porterebbe davvero ad affrancare l’Europa dalla dipendenza dal gas russo?
«Questo è un aspetto centrale: nell’ultimo anno e mezzo sia la Grecia sia la Turchia hanno firmato degli accordi con la Gazprom russa per costruire degli altri gasdotti che scendono da nord verso il corridoio sud e che puntano a collegarsi al corridoio stesso con l’idea di vendere proprio il gas russo attraverso questo percorso. Quindi di che nuova via stiamo parlando? Di quale indipendenza dalla Russia?»
Che cosa ci si deve attendere per la tratta adriatica nelle prossime settimane?
«Per il momento a Melendugno c’è un’altissima mobilitazione di cittadini e residenti: ogni mattina si ritrovano al cantiere tra le 100 e le 200 persone, si fanno assemblee pubbliche a mattina e a sera.
Lo stop ai lavori è stato negoziato proprio per via della situazione di tensione altissima che si era creata con le persone che cercavano fisicamente di fermare i mezzi che entravano in questa zona recintata per iniziare l’espianto degli ulivi. Il prefetto di Lecce si è assegnato il compito di chiarire la situazione dei permessi, perché il Comune e la Regione dicono che il progetto non è autorizzato, perché manca un luogo autorizzato nel quale stoccare gli ulivi, ma è pendente anche tutta la parte che riguarda la costruzione del microtunnel, che è il vero punto critico di questi 8 km italiani. Le autorità locali dicono quindi che senza sapere se il progetto del microtunnel, che è stato presentato solo poche settimane fa, verrà accettato o no dal ministero, se bisogna riaprire o no la via del microtunnel e quindi iniziare magari un nuovo percorso di alcuni anni per cercare di capire come costruire questo tubo e dove, a questo punto non ha senso iniziare oggi l’espianto degli ulivi.
Visto che ci sono anche pendenze di fronte al Tar e a vari livelli amministrativi, questa fase potrebbe essere vista come un’opportunità per ripensare all’intera opera, perché questo progetto non ha niente a che fare con la sicurezza energetica europea, e casomai ha a che fare esclusivamente con gli interessi privatistici di chi punta a prendere questi 45 miliardi di appalti mettendo consapevolmente a rischio il futuro delle persone».