In gennaio il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha annunciato i cambiamenti che coinvolgeranno gli attuali Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, parlando di un profondo cambio di rotta, con una governance trasparente e migliori condizioni di vita all’interno. I nuovi Cpr, Centri di permanenza per il rimpatrio, dovrebbero essere più piccoli e più numerosi, uno per regione, nei pressi degli aeroporti. Attualmente i Cie attivi sono 5, a Roma, Bari, Caltanissetta, Torino, Trapani.
Cosa cambierà effettivamente con questa revisione? I timori di chi lotta per garantire i diritti delle persone all’interno dei centri è che nulla cambi se non la difficoltà di verificare la corretta applicazione delle norme. Ne abbiamo parlato con Gabriella Guido, portavoce della campagna nazionale contro la detenzione amministrativa dei migranti, LasciateCIEntrare.
La vostra campagna non è cosa recente...
«La campagna LasciateCIEntrare nasce nel 2011 per rispondere a una circolare dell’allora Ministro dell’interno Maroni, della Lega Nord, quando per rispondere a questioni di ordine pubblico vietò l’ingresso degli organi di stampa nei Centri di identificazione ed espulsione. Noi ci mobilitammo con la Federazione della stampa, l’Ordine dei giornalisti e molti parlamentari per dire che non possono esserci dei luoghi nei quali non si può entrare e osservare. Riuscimmo ad ottenere l’abrogazione di questo decreto e da allora abbiamo fatto accessi in tutti i Cie d’Italia vedendo che c’era una chiara violazione dei diritti umani e della dignità».
Da allora che cos’è cambiato?
«Dai 13 Cie del 2011 oggi siamo arrivati a cinque, che sono riempiti per metà. Queste disposizioni non sono efficaci alle espulsioni, oltretutto nei centri finiscono persone che non saranno mai rimpatriate, come quelle nate in Italia. Per esempio, pochi giorni fa sono state portate all’interno di un Cie due ragazze rom nate in Italia 24 anni fa. Abbiamo registrato continuamente che l’istituto dei Cie è fallimentare: cambiare sigla ovviamente non cambia nulla. L’anno scorso facemmo un appello per far entrare la società civile: siamo riusciti a far entrare anche alcuni parlamentari che non conoscevano queste strutture, e da lì è stato fatto un lavoro efficace. Queste nuove disposizioni del Ministro Minniti ci portano indietro: molti hanno paragonato i Cie a dei lager: ricorderete la rivolta delle bocche cucite, seguita dalla stampa, ma non le violazioni dei diritti avvenute negli anni, come le morti inspiegabili. Il Cie di Gradisca è stato chiuso perché era un vero lager, come disse anche il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato. Per un Governo che dovrebbe essere di sinistra, usare il concetto di sicurezza con la riapertura di altri centri analoghi per noi è inconcepibile».
Ci sono due aspetti che rendono la promessa di trasparenza poco credibile: la detenzione amministrativa continua a esistere senza essere riformulata, e poi aumentando il numero dei centri sul territorio il loro controllo diventa ancora più difficile. Cosa ne pensa?
«Il nostro ultimo accesso in un centro è stato al Cie di Ponte Galeria di Roma, il 23 dicembre, ma dopo il decreto Minniti non viene più concesso di entrare né a noi né alla stampa. Abbiamo subito denunciato questa cosa: non possiamo entrare nemmeno negli hotspot e così è davvero difficile verificare e monitorare gli aspetti procedurali e la correttezza delle pratiche di espulsione. Nel 2014 scoprimmo il caso delle 69 ragazze nigeriane vittime di tratta che stavano venendo rimpatriate in un luogo da cui scappavano. Vanno bene le espulsioni, laddove devono essere eseguite, ma questi centri devono essere trasparenti alla società civile, agli avvocati, ai giornalisti, perché è importante vedere la corretta applicazione del diritto. Se viene a mancare questo aspetto, da domani potremmo essere tutti soggetti a un non diritto».
La trasparenza in realtà è anche nell’interesse di chi li promuove. In termini di appoggio politico, le vostre istanze sono state raccolte?
«In questi ultimi tempi no. Il tema dell’immigrazione è diventato un tema sul quale si giocano i voti dei politici, per cui mentre prima avevamo diversi parlamentari che si esponevano, ora sono molto pochi. La cosiddetta sinistra sta facendo molti passi indietro da questo punto di vista e la tutela dei cittadini, anche non italiani, è un problema sociale di tutti noi. Voltare la faccia sui minori diritti degli stranieri è un fatto gravissimo che ci sta portando verso una deriva sociale. Perché non dovrebbero avere le stesse possibilità di inserimento sociale di cui tutti abbiamo bisogno? Noi continuiamo a fare appelli, ma sono sempre meno ascoltati».