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«Oltre l’emergenza. Rifugiati: quali soluzioni» è il titolo di un convegno che si terrà a Ravenna venerdì 10 febbraio presso la Scuola di giurisprudenza di via Ordan 1 dalle nove del mattino e dove, per l’occasione, verrà presentato anche il Corso di formazione permanente: «Pratiche sociali e giuridiche sull’accoglienza ed integrazione dei migranti» promosso dalla Fondazione Flaminia (www.fondazioneflaminia.it). All’incontro è stato richiesto l’intervento di Federica Brizi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) che si occupa del «Coordinamento e accoglienza» del progetto «Corridoi umanitari» proprio per raccontarne l’esperienza. Riforma.it le ha rivolto alcune domande.

Brizi, come racconterà l’esperienza dei «Corridoi umanitari», il progetto Mediterranean Hope della Fcei?

«I corridoi umanitari rappresentano oggi, e non solo in Italia, una delle possibili risposte, soluzioni, al tema delle migrazioni e una risposta efficace al dramma delle morti via mare. Quello dei “Corridoi” è un sistema praticabile, legale, che potrebbe essere replicato da altre realtà, sia in Italia che all’estero; qualcuno, infatti, ha deciso di proporlo anche fuori dalla nostra penisola. Mediterranean Hope (Mh), progetto articolato e interdisciplinare, nasce dall’esigenza della Fcei di rispondere al dramma delle migrazioni, dapprima attraverso un’analisi approfondita grazie all’attivazione di un Osservatorio sulle migrazioni a Lampedusa, per un fenomeno in continuo mutamento, e poi, istituendo i “Corridoi umanitari”, che sono, certamente, l’aspetto più pratico insieme alla Casa delle culture di Scicli e più progettuale, direi attuale, a un dramma che le chiese non hanno voluto ignorare».

Dal punto di vista pratico, cosa vuol dire occuparsi dei «Corridoi»?

«Significa creare innanzitutto un forte collegamento tra i nostri operatori che lavorano in Libano, dove operiamo, e il nostro sistema organizzativo a Roma: predisporre l’accoglienza, cercare il matching migliore tra il profugo che arriverà e la struttura di accoglienza dove andrà a risiedere. Significa organizzare logisticamente gli arrivi, lavorare di concerto con la nostra associazione partner, la Comunità di Sant’Egidio, ma anche con i ministeri di riferimento, Esteri e Interno, la polizia di frontiera, l’Unhcr. Ogni arrivo è il frutto di una macchina organizzativa che dev’essere perfettamente oliata e collaborativa tra le persone che dedicano la loro esperienza al progetto. Ritengo che, sia il progetto Mediterranean Hope nel suo complesso che la singola esperienza dei “Corridoi umanitari” realizzati insieme a Sant’Egidio e sostenuti attraverso i fondi Otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi, siano due buone pratiche da prendere come esempio e replicare ovunque sia possibile».

Come funzionano le missioni in Libano?

«I nostri operatori effettuano delle ricognizioni che possono durare, solitamente, da uno a due mesi; un tempo nel quale si dedicano all’individuazione dei beneficiari. Spesso cerchiamo di collaborare con le organizzazioni già presenti sul territorio come l’Unhcr e organizzazioni no profit che segnalano i potenziali beneficiari. Poi prevediamo almeno due o tre incontri con ogni singola famiglia, o singolo interessato, che poi saranno inseriti nel progetto, valutandone l’attinenza, la motivazione e soprattutto, l’effettiva vulnerabilità (medica, ma anche socio – psicologica), un criterio fondamentale per l’inserimento. Una volta costituita la delegazione, questa è presa in esame dal ministero dell’Interno in Italia per i regolari controlli di sicurezza. Solo dopo l’approvazione dall’Italia, l’ambasciata italiana in Libano rilascerà i visti che danno la possibilità di poter entrare in Italia e richiedere l’asilo politico».

Come funziona e he tipo di accoglienza è quella che offrite alle persone accolte in Italia?

«Collaboriamo strettamente con la Commissione sinodale per la diaconia - Diaconia valdese (Csd), alla quale affidiamo il maggior numero di beneficiari del progetto. Questa collaborazione è strategica per l’esperienza nell’ambito dell’accoglienza maturata negli anni dalla Csd. L’idea è quella di un’accoglienza diffusa e partecipata; per questo motivo abbiamo aperto ad altre collaborazioni con chi, in Italia, già lavora con rifugiati e migranti da molto tempo, ad esempio il Centro diaconale La Noce a Palermo, la Rete dei Comuni Solidali in Calabria e altre chiese e organizzazioni che stanno dimostrando interesse verso le nostre attività. Un sostegno che spesso giunge anche da altre chiese estere. I rifugiati vengono accolti per lo più in appartamenti disponibili sul territorio italiano, poi affiancati da operatori socio legali, sostenuti nel recupero delle capacità attitudinali e indirizzati verso un inserimento professionale, sociale e, infine, alla formazione linguistica».

Dal punto di vista giuridico come vi muovete?

Il progetto si basa su una possibilità, quella prevista dall’articolo 25 del regolamento europeo sui visti, e che prevede, per ogni Stato Europeo, la possibilità di poter rilasciare dei visti per motivi umanitari i quali consentono poi l’entrata legale in un Paese, ma solo in quel Paese. L’ambasciata dunque può rilasciare un visto che consente ad ogni singola persona di potersi muovere in tutta sicurezza».

Chi deve chiedere lo status di rifugiato, voi o loro?

«Una volta in Italia, all’aeroporto, le persone manifestano l’intenzione di richiedere protezione internazionale e dovranno seguire l’iter di procedura per la richiesta d’asilo e incontrare una Commissione preposta che valuterà la domanda; solo la Commissione potrà decretare, positivamente o negativamente, l’esito della domanda d’asilo presa in esame».

Immagine: via Pixabay

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