Gerardo Paoletti è un artista che come mezzo espressivo predilige quello pittorico. Da qualche tempo il suo interesse si è diretto verso tematiche sociali: sono cinque gli anni che ha impegnato nello sviluppo di una gigantesca installazione, La mafia siamo noi, esposta a Livorno fino al 1 gennaio 2017. Si tratta di un’opera imponente che l’autore ha dovuto creare in una versione in scala ridotta perché si potesse capire quale sarebbe stato il prodotto finale. La galleria di immagini e suoni che è nata dopo questa lungo lavoro invita i visitatori, soprattutto gli studenti delle scuole medie e superiori, a confrontarsi con il tema della responsabilità e della presa di coscienza di fronte al problema della mafia nel nostro paese.
Nello specifico come è stata creata l’opera?
«Si tratta di 92 ritratti dipinti che con una tecnica video vengono animati attraverso la voce originale dei personaggi. Tutti insieme raccontano una storia e intrecciano un dialogo virtuale riguardo un periodo ben preciso della storia della mafia siciliana.
Tutto è cominciato quando ho incontrato il giudice Antonino Caponnetto, capo del pool antimafia di Falcone e Borsellino. Io sono del 1974 e tutta questa storia l’ho vissuta, direttamente o indirettamente, attraverso i giornali e la tv ma mi sono reso conto che di lui sapevo molto poco e mi ha affascinato moltissimo; quello che ho pensato è che sarebbe stato importante fare qualcosa per poi condividere il lavoro soprattutto con quelli della mia generazione. Ho cominciato a lavorare sui ritratti, ma mi sono subito reso conto che non sarebbe stato sufficiente e, consultando varie fonti, ho avuto l’idea di inserire degli audio originali. Per cinque anni ho letto, mi sono documentato e ho cercato le voci dei vari personaggi».
Ha trovato tutto quello che cercava?
«Un giorno il presidente dell’Associazione Antonino Caponnetto, che ho coinvolto nella stesura del progetto, mi ha detto che se avessi voluto elencare e ritrarre tutte le vittime della mafia ci sarebbe voluto un tunnel lungo da Firenze fino a Palermo. Si poteva intuire quanto il lavoro fosse monumentale, quindi ho cercato di ridurre i confini della storia in un tempo cronologico che va dagli anni Settanta, con la morte di Peppino Impastato, fino alla strage di via dei Georgofili a Firenze.
La particolarità dell’installazione sta anche nel fatto che ho inserito anche i volti dei mafiosi; li ho messi insieme alle vittime perché mi sono reso conto che ogni anno ci sono elenchi di vittime della mafia che non si sa da chi vengano uccise. Anche il poter far dialogare vittime e carnefici mi sembrava interessante per affrontare la tematica da un altro punto di vista: in questa linea temporale, in questo tunnel profondo e buio si mescolano i ritratti in un dialogo post mortem».
Vorrebbe dire che dal punto di vista dell’arte sono tutte vittime?
«La linea di demarcazione tra bene e male si perde, si entra dentro una storia che apre anche ad aspetti umani totalmente inaspettati. Le voci e gli audio che ho recuperato li ho resi molto semplici e, nonostante la banalità del linguaggio, nei brevi spezzoni di interviste recuperate si percepisce benissimo chi ha un pensiero mafioso e chi non lo ha.
In realtà c’è una minima differenza tra vittime e carnefici: questi ultimi sono riprodotti leggermente in rilievo, ma è una differenza che a un primo sguardo non è evidente. Bisogna osservare bene».
I protagonisti dell’installazione sono i 92 ritratti, allora perché il titolo La mafia siamo noi?
«Si tratta di una citazione: è una frase estrapolata dall’ultimo tema di Rita Atria, ragazza scappata da una famiglia mafiosa e poi affidata a Paolo Borsellino, che l’aveva fatta trasferire a Roma in località segreta. Le avevano ucciso il padre e il fratello e poi era diventata una importante testimone di giustizia. Questa ragazza ha lasciato molti scritti su come prima di conoscere Borsellino non poteva percepire che esistesse un altro mondo oltre a quello mafioso; Rita Atria, nei pochi anni della sua vita, ha spesso detto che la mafia va combattuta innanzitutto con un lavoro culturale, perché se alle persone che vivono di mafia non si dà l’opportunità di intuire che esista un altro modo di vivere, non possono cambiare. Alla morte di Borsellino lei si è suicidata, e il suo ritratto è tra gli altri della galleria».