«Portami via» è un documentario, un film, che ripercorre la storia di una famiglia siriana, ora in Italia, grazie ai «Corridoi umanitari». Cosentino, com’è nata l’idea di realizzare questo progetto?
«L’idea di realizzare un docufilm è nata un po’ per caso; ci eravamo occupati di “Corridoi umanitari” prima ancora del loro reale avvio insieme a Gad Lerner. Eravamo venuti a conoscenza di questo progetto pilota in Europa che poteva sembrare lapalissiano, nella pratica, ma rivoluzionario nel panorama europeo: mettere a disposizione di persone vulnerabili, in paesi devastati da guerre e conflitti, un aereo e un visto umanitario per agevolare il passaggio in paesi sicuri e accoglienti, evitando così il possibile rischio di morte in mare o subire patimenti e torture da parte di scafisti senza scrupoli. L’unica soluzione ragionevole. Abitando a Beirut, città di partenza per le persone coinvolte dal progetto, ho deciso contattare gli operatori sul campo. Da una curiosità iniziale la mia attenzione è poi diventata esigenza e poi, lo ammetto, un onore: poter essere prossima a molte persone; ad una famiglia in particolare, quella Makawi, diventata la protagonista del racconto e con la quale ho stretto una forte amicizia».
Cosa sono i Corridoi umanitari?
«Sono vie di accesso legali e sicure per richiedenti asilo; una buona pratica che permette il raggiungimento in un Paese terzo sicuro. Il meccanismo europeo non prevede che il richiedente asilo possa attivare la protezione internazionale direttamente nelle proprie Ambasciate. Questo spiega il motivo per cui molte persone, che avrebbero diritto all’asilo politico, sono invece costrette ad affrontare la rotta del mare o la rotta Balcanica e coprire distanze infinite, come ad esempio dal Libano o dalla Turchia, in maniera illegale e rischiosa. I Corridoi umanitari sono una delle vie d’accesso legali e sicure; un’altra è quella messa in atto da Medici senza Frontiere che mette a disposizione delle navi di salvataggio».
Quali sono state le tappe del docufilm?
«L’incontro con gli operatori di Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e della Comunità di Sant’Egidio – promotori dei Corridoi umanitari insieme alla Tavola valdese – è stata la conditio sine qua non del nostro lavoro, senza di loro non sarebbe stato possibile. Presi per mano io e Manolo Luppichini, il mio collega di viaggio e avventura, siamo stati guidati e accompagnati in questo percorso di conoscenze e messi nelle condizioni di poter operare sul campo attraverso interviste, riprese e la raccolta di dati. In questo peregrinare tra famiglie e storie, nella ricerca di persone vulnerabili da sostenere e condurre in Italia, ho potuto incontrare la famiglia di Jamal Makawi, che poi è diventata la protagonista del nostro video. “Portami via” è nato in corsa, dal semplice desiderio di parlare di questa grande “tragedia umanitaria”, ma in modo più ambizioso rispetto ad una pura testimonianza giornalistica. Prima di allora non mi ero mai cimentata in un documentario così lungo, della durata è di sessanta minuti, e seppur in punta di piedi, entrando così fortemente nella vita di altre persone. Quando ho incontrato la famiglia Makawi ho avuto la presunzione di voler diventare, in qualche misura, il loro diario di viaggio, spero di esserci riuscita nel rispetto della loro dignità e della veridicità del racconto. Per raccontare e divulgare quella che ritengo una chance per la salvezza. L’incontro con gli operatori dei Corridoi umanitari “è stata una poesia della salvezza” ha detto anche Jamal».
Qual è la storia della famiglia Makawi?
La famiglia risedeva a Tripoli, siamo stati insieme per un mese, quello prima della loro partenza verso l’Italia. Sempre insieme siamo partiti e arrivati a Torino: la città che li ha ospitati e dove ancora oggi continuiamo a vederci regolarmente, seppur io viva Milano. Le testimonianze di Jammal sono tutte molto forti e poetiche allo stesso tempo, lui si è messo a nudo e ha messo in luce i suoi sentimenti. Jamal è stato in carcere per molto tempo, 115 giorni, torturato e interrogato dal regime di Assad. Se oggi è qui con noi è perché non hanno trovato nulla per poterlo trattenere. Lui sostiene che se avessero davvero sospettato di lui oggi non sarebbe riuscito a raccontarlo. Molte persone invece hanno potuto incontrarlo in Italia e apprezzarlo, proprio com’è avvenuto in occasione della serata pubblica dedicata ai Corridoi umanitari promossa dal Sinodo valdese e metodista di Torre Pellice alla quale era stato invitato a fine agosto. Il film racconta una storia fatta di ricordi, di presente e di futuro. Abbiamo documentato anche i primi due mesi a Torino, raccogliendo le loro prime impressioni. Un mondo nuovo: l’Italia. Una cultura nuova con abitudini, tradizioni e usanze a diverse, ne sono uscite chiavi di lettura interessanti. Siamo abituati a vedere e giudicare l’altro ma non sappiamo come l’altro, invece, vede noi. La loro storia è stata un’altalena tra entusiasmo, da una parte, e salti nel buio dall’altra. Un aereo per la salvezza che porta verso l’ignoto, questo era il Corridoio umanitario per loro, sapere cosa stavano lasciando e non dove sarebbero andati a finire. Lunedì scorso, a Milano, in occasione della presentazione pubblica di “Portami via”, è arrivata una bella notizia, una novità: la famiglia ha ottenuto il riconoscimento di protezione internazionale per cinque anni che darà loro diritto ad ottenere la cittadinanza italiana e dunque a poter lavorare. La storia della famiglia Makawi è paradigmatica perché racconta la quella di tante famiglie siriane. Famiglia composta da otto persone che viveva ad Homs, luogo dove la repressione del regime è stata pesante e dove già da tempo, per usare le parole di Jamal “si sentiva da tempo che qualcosa di molto grosso stesse bollendo in pentola”. Seppur la famiglia non fosse politicamente coinvolta, ha patito come tante altre le brutalità della rivolta in atto. Forti e toccanti i racconti di Jamal ricordano le torture subite nel periodo di detenzione. L’unica colpa era, probabilmente, quella di aver aiutato persone come lui a superare il dolore e la sofferenza delle ingiustizie. La musica di Saro Cosentino, mio papà e grande musicista se posso permettermi, accompagnano le immagini del nostro lavoro con toccante sintonia».