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Perché celebrare la Riforma? Da questo significativo interrogativo ha preso le mosse la prolusione, curata dal prof. Paolo Ricca, che sabato 8 ottobre ha inaugurato il 162° anno accademico della Facoltà valdese di Teologia di Roma. Un’Aula magna gremita di uditori, studenti e docenti ha tenuto alta l’attenzione sulle parole pronunciate dal teologo, che hanno toccato un tema a noi particolarmente vicino quale quello della ricorrenza dei 500 anni della Riforma protestante nel 2017.

L’architettura della prolusione ha trovato le sue fondamenta su quattro pilastri: 1) Celebrare? 2) Celebrare 3) Che cosa non possiamo e non vogliamo celebrare 4) Che cosa possiamo e vogliamo celebrare.

«All’inizio, quando mi venne proposto il tema della prolusione di quest’anno – ha detto Ricca – il punto interrogativo dopo “celebrare” non c’era. Non è scontato che si possa e si debba celebrare». Per Paolo Ricca il verbo «celebrare» è quello più adatto quando si parla di tale importante ricorrenza. «Ho scelto “celebrare” perché ritengo che la Riforma sia stata un’opera di Dio –. Noi celebriamo le opere di Dio. Il verbo “celebrare” nella Bibbia è usato in relazione a tutto ciò che Dio compie.

Il teologo considera la Riforma come «opera di Dio attraverso gli uomini, che hanno commesso errori e incoerenze». «Ci potrebbe essere una esitazione nostra a una celebrazione. Sono veramente degno di celebrare la Riforma? – si chiede Ricca –. C’è un abisso tra ciò che la Riforma è stata e ciò che siamo noi. La temperie spirituale, la passione per Dio che ha animato e quasi annientato i riformatori dov’è? Con timore e tremore celebro sapendo che non ne sono degno in nessun modo. I riformatori hanno subìto la Riforma, non l’hanno fatta. Credevo fossero loro gli eroi. Essi hanno subito un movimento che li ha trascinati contro il loro volere. Non sono affatto artefici e protagonisti, sono gli strumenti che non hanno potuto resistere a qualcosa capitato loro, che non volevano ma che hanno voluto loro malgrado compiere». A proposito della Riforma, Lutero ne parla paragonandola a un temporale passeggero, a un acquazzone estivo che viene e va, che non torna più dov’è già stato. Celebriamo la Riforma perché la riconosciamo opera della Parola di Dio che viene e va e che dobbiamo afferrare.

A proposito di che cosa «non possiamo celebrare», Paolo Ricca ha citato quattro elementi.

Il primo è il ricorso all’autorità politica, che i riformatori hanno utilizzato per sostenere la causa della Riforma così come loro la intendevano, ovvero la causa della Riforma affidata alla legge dello Stato. Il secondo è la questione dei contadini e il fatto che essi trasponevano, trascrivevano la libertà cristiana predicata da Lutero nelle libertà civili e sociali. Il terzo è l’atteggiamento di Lutero nei confronti degli ebrei; egli pronuncia parole impossibili; e infine vi è il fatto che nel 1529 a Marburgo Lutero e i suoi colleghi si sono incontrati per discutere sulla Santa Cena e non sono riusciti ad accordarsi, non hanno attuato la realizzazione dell’unità nella diversità. «La Riforma è nata dalla Sacra Scrittura – insiste Paolo Ricca –. Essa è il cuore, il tesoro, l’anima della Riforma. Ma la Riforma stessa qui diventa parola che divide e da qui dunque la scoperta che la Bibbia può anche dividere».

Che cosa possiamo allora celebrare? Celebriamo quelle che Ricca ha definito le «cinque perle della Riforma». Al primo posto quella che possiamo definire l’anima stessa di questo avvenimento storico, solus Christus. «Il solus è fondamentale per capire la Riforma – ha sottolineato –. Esso vuol dire che in Cristo trovi tutto. Descrive sì un’esclusione ma anche una pienezza. Significa prenderti per mano e condurti a scoprire la pienezza del dono di Dio in Cristo Gesù».

La seconda perla è costituita dal fatto che il cristiano protestante è un uomo vinto dalle parole della Scrittura, che rifiuta di deporre la coscienza e che è prigioniero della Parola di Dio. Atteggiamento che del resto ha contraddistinto Lutero davanti all’autorità pontificia quando ha affermato «Io sono vinto dalle parole della Scrittura che ho addotto».

La grazia incondizionata è la terza perla. In un momento storico come quello in cui il monaco di Wittenberg si trovò a vivere, nel quale la Chiesa affermava «ti perdono a patto che, a condizione che… tu compia opere di penitenza», la Chiesa di Lutero contrappone la grazia incondizionata, immeritata, gratuita. Il cristiano è libero ed è egli stesso responsabile della sua libertà. «Non c’è da comprare, c’è solo da credere», conclude Ricca.

La quarta perla è la libertà del cristiano, figlia della fede e dell’amore. «Un cristiano vive in Cristo per la fede, nel prossimo per amore», si legge nella conclusione del trattato di Lutero La libertà del cristiano del 1520.

E infine la quinta perla è la civiltà, sulla quale Ricca ha richiamato l’attenzione citando il titolo che lo storico Emile G. Léonard, nella sua Storia del Protestantesimo, dedica a Calvino, «Calvino fondatore di una nuova civiltà». Cristo solo, coscienza, grazia incondizionata, libertà e civiltà: questi dunque, i cinque motivi per cui possiamo e vogliamo celebrare la Riforma.

Ma che cosa ha prodotto la Riforma nella storia della Chiesa? La divisione della cristianità occidentale e la nascita di un nuovo modello di chiesa secondo quel fenomeno che Leonardo Boff chiama «ecclesiogenesi» in riferimento alle comunità latinoamericane e che Paolo Ricca utilizza riferendosi alla Riforma. «Il protestantesimo non è solo cattolicesimo riformato ma è cristianesimo sostanziato di Bibbia – afferma il teologo valdese –. È nato un nuovo modello di chiesa in cui ha preso corpo un nuovo tipo di cristianesimo, sia pure in una condizione di divisione che c’è stata. Noi ci apprestiamo a festeggiare questo avvenimento come cristiani europei. Oggi non viviamo più divisi come allora. Passiamo dalla divisione alla condivisione». E nel definire il cristiano di oggi in relazione a questo momento di transizione da divisione a condivisione, Ricca cita Barth, che nel 1922 diceva: “Questo cristiano non si affretta ma attende, non riposa ma veglia, non critica ma spera, non ammaestra ma prega o ammaestra in quanto prega, non si fa avanti ma sta indietro. Egli non è in nessun posto perché è dovunque». E con Barth e con uno scroscio di applausi si è conclusa la prolusione per il 162° anno accademico della Facoltà valdese.

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