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Pozzallo è a pochi km e anche la Casa delle culture diventa indispensabile per decongestionare l'hotspot del porto nei momenti di maggiore afflusso. «Dopo il terribile naufragio del 3 ottobre del 2013 (366 morti e 20 dispersi a poche miglia dal porto di Lampedusa, ndr), chi arrivava a Lampedusa veniva dirottato su Pozzallo: per questo motivo il Ministero dell’Interno ha sollecitato la Federazione a trovare un luogo per fare accoglienza non troppo distante dall’hotspot», racconta Francesco Sciotto, pastore di Scicli, Pachino e Vittoria, membro della Commissione sinodale per la Diaconia e fra i responsabili del progetto Mediterranean Hope. Così la scelta è caduta su Scicli, dove c’è una comunità attiva, forte, capace di sostenere il progetto. «Ospitiamo minori, anche se non sempre è facile individuarli, perché molti giovani per non essere espulsi dall’Italia dichiarano di avere meno di 18 anni anche se sono già maggiorenni – spiega il pastore Sciotto – questo stratagemma all’inizio può facilitarli ma in seguito complica le cose perché, appena scoperti, vengono messi alla porta delle strutture per minorenni. Altri, al contrario, si dichiarano adulti senza esserlo per poter uscire dall’hotspot: insomma, questi ragazzi cercano di arrangiarsi per trovare almeno una soluzione temporanea ma non hanno una vera strategia sul loro viaggio». Un “si salvi chi può” a cui si aggiungono stanchezza, paura, disorientamento: «molti di questi ragazzi – aggiunge ancora il pastore Sciotto – non sanno nemmeno dove sono: per loro l’Italia è soltanto Roma e Milano e quando gli spieghi che sono in Sicilia, a centinaia di chilometri dal posto in cui pensavano di arrivare, ti guardano smarriti».

C’è da crederci, a vedere dove finiscono: l’hotspot di Pozzallo, una struttura pensata all’inizio per 185 persone, ne ha contenute in realtà 250 e poi 400, e oggi arriva a 500, senza contare le tende montate all’esterno nei momenti di maggiore afflusso di migranti, come è successo gli ultimi giorni di agosto, quando sono sbarcati in 13mila sulle coste italiane. «In 48 ore abbiamo ricevuto 1300 persone, c’erano moltissimi bambini e adolescenti non accompagnati: abbiamo lavorato senza interruzione per dare una sistemazione e una prima accoglienza ai nuovi arrivati». Franca Assenza è una delle quattro assistenti sociali che lavorano nell’hotspot: il suo orario di lavoro è continuamente stravolto dall’emergenza e dalla necessità di aiuto e ascolto dei migranti; il personale è a dir poco insufficiente (quattro assistenti sociali, tre psicologhe e due consulenti legali) ed è costretto a lavorare senza garanzie. Non è un mistero che le cooperative che hanno in gestione i centri hanno mandati brevi e càpita che vinca l’appalto non il migliore ma chi gioca al ribasso: «ora ad occuparsi di Pozzallo c’è la Domus Caritatis – racconta Assenza – ma è la quarta che cambiamo in tre anni». Il risultato, per i 45 dipendenti della ditta precedente, sono sette mesi di arretrati non pagati, conclude amaramante Pazienza. In una parola, chi si occupa del primo contatto con i migranti lavora senza percepire uno stipendio.

«Qui vediamo di tutto – continua Assenza – ragazzine sole che si prostituivano già in Libia e aspettano soltanto di varcare il cancello per essere prelevate dai papponi locali, giovani egiziani convinti che in Italia potranno studiare e lavorare, famiglie smembrate che chiedono affannosamente il ricongiungimento: un inferno». Mogli divise dai mariti, genitori separati dai figli al momento della salvezza: sembra una maledizione biblica e invece è l’errore dei momenti concitati del recupero in mare, quando alcuni vengono fatti salire su una nave e altri su un’altra e poi sbarcati in porti differenti. Famiglie sopravvissute a un’odissea che si perdono sulle navi dei salvatori. Sembrerebbe una beffa, se non fosse l’ennesima tragedia che si incista nell’ingiustizia degli esodi via mare. «Abbiamo avuto il caso di un uomo, a cui è morta la moglie, che ha perso i contatti con i due figli al momento del salvataggio – racconta Assenza – lui era finito a Pozzallo, da solo, e da qui è stato rimpatriato. Appena ha potuto è ripartito un’altra volta da capo su un altro barcone per cercare i suoi figli rimasti in Italia. La figlia l’ha rintracciata ad Augusta, il bambino ancora non si trova ma lo stiamo cercando con l’aiuto della Croce Rossa. Lui è convinto che sia vivo, ha visto il suo giubbotto in una delle tante foto dei campi di accoglienza e non si dà per vinto».

Storie di ordinaria disperazione, una diversa dall’altra, ognuna con la sua tragedia personale, tante, troppe, e una sull’altra non fanno numeri in una statistica, fanno vite. Vite segnate che dovrebbero interrogarci, perché basta poco per intuire la disperazione che le anima – ma anche, come testimoniano le operatrici siciliane che le raccolgono, una straordinaria resilienza e il desiderio di ricominciare.

(fine terza puntata. Continua)

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Immagine: via flickr.com

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