Negli ultimi giorni, sui social network molti osservatori e giornalisti specializzati sui temi dell'informazione religiosa si sono interrogati sul perché un grande giornale come la Repubblica abbia volutamente “bucato” l'evento dell'incontro interreligioso di Assisi. All'indomani del meeting, infatti, sul quotidiano non è comparsa neanche una riga. E dire che sia l'attualità del tema (l'impegno delle fedi contro la guerra e contro tutti i fondamentalismi) sia la presenza di numerosi leader religiosi mondiali (da papa Francesco al patriarca ecumenico Bartolomeo, dall'arcivescovo di Canterbury Justin Welby al segretario del Consiglio ecumenico delle Chiese Olav Fykse Tveit) ben si prestavano a farne una notizia da prima pagina.
Al di là delle motivazioni specifiche e concrete che hanno convinto la direzione di Repubblica a compiere una tale scelta, su cui si può solo speculare, l'episodio può essere utile per un paio di considerazioni più generali. Le butto giù come mi vengono, più in forma di domande fragili che altro. Magari serve ragionarne insieme.
La prima questione mi sorge da una frase detta da papa Francesco ad Assisi: «Siamo insieme per pregare, non per fare spettacolo». Ecco: non è che questa sia già una scelta di campo precisa, orgogliosamente cosciente dello scotto da pagare che essa richiede? Mi spiego: viviamo in un società sempre più mediatizzata, “drogata” di social network, che si appassiona istericamente al divorzio di Brangelina o alla diffusione in rete delle foto intime di una nota giornalista tivù; che oscilla a destra e a manca come una bandierina impazzita, in preda alle folate emotive scatenate da una informazione il cui unico chiodo fisso, ormai, sono i “click”, i “mi piace”, il numero di follower su twitter. Ci possiamo poi stupire che i media non ritengano così “sexy” la notizia di un gruppo di religiosi che si riuniscono con l'unico scopo di pregare insieme? In altre parole: non è che - di fronte a un'opinione pubblica che rischia di essere narcotizzata dalla logica del consumo e resa indifferente a tutto fuorché alle proprie ossessioni compulsive - la ricerca spirituale e l'invocazione di Dio (foss'anche per una nobile causa come la pace) sono attitudini di per sé “eversive”, talmente controcorrente da essere inconsciamente censurate? Se è vero, come predicono i sociologi, che il futuro dei cristiani “adulti” sarà quello di una minoranza sempre più esigua, bisogna mettere nel conto che la profezia del Vangelo venga sempre più spesso “oscurata”. Il problema non è lamentarsi o protestare, ma restare vivi, fertili e gioiosamente provocatori.
La seconda considerazione, altrettanto provvisoria e dubbiosa: sono passati trent'anni dal primo incontro interreligioso per la pace, voluto da papa Wojtyla nel 1986. Tanta acqua sotto i ponti della storia. Eppure, nonostante i dialoghi, le invocazioni interreligiose e i meeting ecumenici che si sono ripetuti in questi tre decenni, le religioni oggi sembrano cedere più di allora alle sirene dei radicalismi violenti, dei fondamentalismi ciechi, degli integralismi assassini. Una ragione in più, certo, per applaudire oggi i leader che coraggiosamente si sono ritrovati ad Assisi per spezzare questo legame tra Dio e le armi. Ma anche un motivo per qualche riflessione autocritica: in tanti casi, la responsabilità dell'inquinamento della vita spirituale con le tossine della logica del potere (questo, alla fine, è l'integralismo) va attribuita ai vertici delle comunità di fede, i quali magari predicano bene e razzolano male. Ma ciò non assolve automaticamente i comuni fedeli: noi - noi tutti, ebrei cristiani musulmani buddhisti indù... - cosa abbiamo fatto perché ciò non accadesse?