Sono passati quattro mesi dal 20 maggio 2016, data in cui, dopo un iter parlamentare durato oltre tre anni, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, firmava la legge 76/2016, detta anche “legge Cirinnà”, dando vita all’istituto giuridico delle unioni civili.
Alla fine di luglio il governo aveva emesso i decreti attuativi, sancendo quindi l’effettiva applicabilità della legge, ma soltanto in queste settimane i comuni più piccoli hanno avuto la possibilità di celebrare e registrare le prime unioni tra persone dello stesso sesso. Questa distanza tra l’entrata in vigore della legge e la sua traduzione pratica porta con sé la necessità di un primo bilancio: in questi primi mesi è possibile parlare di risultati positivi e di un cambiamento significativo? Che cos’è andato storto? Secondo Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay, «il principale problema nell’applicazione della legge è stato finora la lentezza della macchina organizzativa italiana».
In questi primi mesi le amministrazioni italiane si sono dimostrate pronte ad accogliere questa novità?
«Finalmente in queste settimane i problemi sono in fase di definitiva risoluzione. C’è voluto moltissimo tempo per fare in modo che la legge venisse seguita e quindi che fosse preparato tutto quello che serviva per permettere alle persone di poter accedere all’istituto giuridico delle unioni civili: pensate che alcuni comuni hanno ricevuto soltanto la settimana scorsa dalle prefetture i registri nei quali vanno iscritti i dati delle coppie che decidono di costituire un’unione civile».
Come mai ci è voluto così tanto?
«È una questione di tempo e di organizzazione: i decreti attuativi sono stati pubblicati a fine luglio, ma purtroppo agosto è un buco nero nella nostra pubblica amministrazione e quindi soltanto adesso si sono potuti trasformare in qualcosa di concreto. Alcuni grandi comuni avevano subito provveduto in proprio perché avevano le risorse per poterlo fare, mentre i piccoli comuni hanno avuto più problemi, perché spesso il personale di una piccola amministrazione si riassume in due o tre persone e se sono in vacanza nessuno fisicamente è in grado di provvedere, né di sollecitare le prefetture ad avere tutti i documenti».
Ora la copertura sul territorio è completa?
«Sì, siamo a regime quasi dappertutto, ora è pienamente possibile celebrare un’unione civile quasi in tutta Italia. Probabilmente manca ancora qualche provincia, perché magari qualche prefettura sta tardando a provvedere per le pratiche, però ormai in termini burocratici tutto sta andando a posto ed è possibile fare quello che prevede la legge».
Alcune amministrazioni comunali avevano annunciato di volersi rifiutare di registrare le unioni civili. Finora è effettivamente avvenuto da qualche parte?
«Bisogna fare un passo indietro: su questo tipo di comunicazione politica la Lega Nord ha giocato un pezzo del proprio consenso dal punto di vista elettorale e politico e aveva dato mandato a tutti i i propri sindaci di mantenere questa posizione. Tuttavia questa posizione si è rivelata un po’ un bluff dal punto di vista sostanziale perché tutti i sindaci sanno perfettamente di non poterlo fare: un amministratore che si rifiuta di applicare una legge dello Stato rischia di incorrere in sanzioni molto pesanti, sia dal punto di vista personale, con eventuali chiamate in giudizio e rimozione dall’incarico, sia dal punto di vista amministrativo».
Di quali conseguenze parla?
«Le amministrazioni che senza un motivo rifiutano o ritardano di dare accesso a un istituto pubblico ne possono rispondere in tribunale: le coppie che subiscono questo tipo di danno possono ricorrere in giudizio e chiedere anche il risarcimento ai comuni stessi che adottano questo tipo di politiche. Per questo motivo c’è stata una sostanziale correzione del tiro da parte di questi sindaci, la cui grande maggioranza aveva affermato di non voler registrare unioni civili. Alla fine il salvacondotto è stato trovato delegando altri a celebrarle per conto loro, e sostanzialmente va bene, perché la legge lo prevede. Un sindaco in effetti non è obbligato personalmente a celebrare un matrimonio, e lo stesso discorso vale per le unioni civili: l’importante è che venga data la possibilità nel proprio comune di accedere a questo istituto».
Nessuno ha cercato di aggirare la norma?
«In effetti ci sono state altre forme che potremmo considerare delle ripicche, e alcune di queste sono ancora in corso, anche se pian piano le stiamo affrontando per cercare di risolvere la situazione con le buone prima che con le cattive, e per cattive intendo ovviamente la citazione in giudizio e i passaggi attraverso tribunali, prefetti e quant’altro. Alcuni comuni hanno cercato di aggirare la norma, nella quale si afferma che non può esserci alcun tipo di differenziato trattamento tra il modo in cui si può fare il matrimonio e modo in cui si può fare l’unione civile. Per esempio, invece, il comune di Padova aveva inizialmente stabilito che si può registrare un’unione civile soltanto il mercoledì mattina dalle 10 alle 12 , mentre il comune di Trieste, che a differenza degli altri sta ancora tenendo questa posizione, ha deciso di non concedere le sale che vengono usate per i matrimoni ma destinare un’altra sala accanto all’ufficio anagrafe per poter celebrare le unioni civili. Sono veramente dei dispetti, delle battaglie di retroguardia di chi sa di aver perso una partita storica, e credo che nei prossimi tempi anche queste resistenze verranno meno».
Questo tentativo di aggirare le norme non somiglia un po’ alla vicenda di quelle amministrazioni comunali e regionali che attraverso norme urbanistiche si oppongono alla costruzione di nuovi luoghi di culto?
«Esatto. È molto simile e con poca prospettiva. Su questo tema sempre la Lega Nord aveva fatto scuola qui in Lombardia proprio quando aveva stabilito una nuova normativa sulla costruzione di nuovi luoghi di culto con caratteristiche urbanistiche tali per cui o si faceva in mezzo alla campagna, in mezzo al nulla, o difficilmente si sarebbe potuto realizzare un luogo di culto per qualsivoglia religione viste le autorizzazioni richieste».
Durante il lungo percorso parlamentare, il dibattito sulle unioni civili è stato decisamente scomposto e sopra le righe. Ora che il diritto è acquisito, i toni si sono ammorbiditi?
«Diciamo prima di tutto che i poli della Terra non si sono invertiti, nonostante alcune previsioni. Detto questo, credo che in realtà avremo un effetto contrario, almeno per i primi anni, perché è successo ovunque in Europa: i Paesi che hanno riconosciuto la possibilità alle coppie dello stesso sesso di accedere a un istituto di diritto pubblico, sia il matrimonio o siano le unioni civili, hanno visto negli anni immediatamente successivi a questo tipo di possibilità un aumento dell’omofobia e dei casi di discriminazione. Credo si tratti di una reazione abbastanza fisiologica, perché questo diritto aumenta enormemente la visibilità delle persone omosessuali, visto che si tratta di un istituto pubblico e quindi rende note queste persone nella comunità, nel posto di lavoro, tra le famiglie, gli amici, i parenti, i vicini di casa. C’è un grande aumento della loro visibilità, e questo comporta un aumento della frizione con chi non è disponibile nemmeno a tollerare la loro esistenza: in Spagna l’anno dopo l’approvazione del matrimonio egualitario a opera del governo Zapatero i casi di omofobia e di violenza sono quadruplicati. In Francia si sono triplicati, e anche in Inghilterra c’è stato un grande aumento. Credo che questo vada messo in conto anche nel nostro Paese, ma fa parte di quel cambiamento culturale che incontra delle resistenze all’interno di una comunità soprattutto dove ci sono forze politiche e istituzioni popolari presenti sul territorio che continuano a mandare messaggi negativi all’indirizzo delle persone omosessuali, dalle forze politiche a una parte della chiesa cattolica. Sono cose che si fanno sentire e il rischio di un aumento della conflittualità c’è e credo che nei prossimi anni avremo un aumento di questo fenomeno nel nostro Paese. Da una parte c’è un pezzo di Paese che festeggia ed è felice del fatto che finalmente esista questa possibilità, e parlo anche di una parte consistente di popolazione eterosessuale, perché capisce che un mondo in cui le persone possono costruire la propria vita a prescindere dall’orientamento sessuale e possono vivere felicemente è un mondo migliore per tutti, mentre dall’altra c’è chi vede questo diritto come l’inversione dei poli della terra, un qualcosa di terribile da contrastare».
Possiamo pensare che sia soltanto un colpo di coda fisiologico e che il percorso ormai ci porti a vivere una normalità per tutti?
«Sì, però il problema è che il nostro Paese arriva al colpo di coda un po’ impreparato, perché a differenza di altri Paesi ad esempio noi non abbiamo una legge a contrasto di omofobia e transfobia che costituisca un’aggravante di reato verso chi attua violenze o forme di discriminazione legato all’orientamento sessuale. Non abbiamo un percorso strutturato all’interno delle scuole per educare tutti i ragazzi al rispetto di ogni forma di differenza, perché mentre si fa verso il razzismo e le discriminazioni religiose e razziali, nei confronti dell’orientamento sessuale è una battaglia continua cercare di fare in modo che nelle scuole si parli di questo tema per fare in modo che i ragazzi siano preparati per affrontare un mondo in cui tutte le differenze sono legittime».