Nell’aprile di quest’anno la Claudiana ha pubblicato un libro di Thomas Kaufmann intitolato Gli ebrei di Lutero. Dalla ricerca di Kaufmann risulta chiaro come il riformatore sia passato da un’iniziale apertura a una posizione sempre più intransigente verso gli ebrei, fino al punto di esigere la loro espulsione e la distruzione delle loro sinagoghe. Ma risulta anche chiaro come per Lutero Israele rappresentasse un problema. Sarebbe un errore pensare che per noi il problema sia ormai superato dall’attuale clima di dialogo e collaborazione con le comunità ebraiche. La collaborazione con le comunità ebraiche in Italia è un fatto rallegrante. Ma non ci esime dal riflettere sul significato teologico dell’esistenza di Israele. Il fatto nuovo, rispetto a Lutero, è che per noi Israele esiste, mentre per lui era un residuo di un passato superato dall’avvento di Cristo (così almeno dice Kaufmann, a p. 182).
Per noi è certamente più significativo, anche se non facilita il dialogo con gli ebrei di oggi, il discorso che l’apostolo Paolo fa nei capitoli da 9 a 11 della Lettera ai Romani. Testo che i riformatori hanno conosciuto e commentato, ma che noi oggi leggiamo in modo diverso. Mi limito ai vv. 1-8 del cap. 9. Qui dobbiamo subito notare una differenza rispetto all’apostolo. Paolo lascia capire che il legame con Israele resta per lui fondamentale, e in questo non possiamo che seguirlo; ma dice anche che gli causa «una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore». Il motivo è che Israele non ha riconosciuto Gesù come il Cristo, come il Salvatore. Qui sta la differenza. Ciò che ci causa «grande tristezza e sofferenza continua» oggi non è ciò che gli ebrei pensano di Gesù, ma ciò che i cristiani hanno fatto agli ebrei nel corso dei venti secoli successivi alla Lettera ai Romani: il disprezzo, le umiliazioni, le violenze inflitte agli ebrei; la condizione di continua insicurezza in cui gli ebrei sono stati mantenuti negli stati cristiani. Se possiamo oggi parlare e collaborare con gli ebrei, lo dobbiamo alla loro eccezionale maturità spirituale. Stanno attuando verso di noi il perdono insegnato da Gesù, quel perdono che in passato noi non siamo stati capaci di attuare verso di loro.
Solo con estrema cautela possiamo procedere nella riflessione, basandoci su quanto dice l’apostolo. Paolo da un lato riconosce che le prerogative di Israele conservano tutto il loro valore. Gli Israeliti sono sempre coloro «ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo» (Rom. 9, 4-5). Dall’altro lato constata: «non è che la parola di Dio sia caduta a terra» (v. 6). Sta accadendo che, mentre Israele resta incredulo, molti, di altre nazioni, giungono alla fede. Come possiamo valutare questi due aspetti? Cominciamo dal secondo: la nostra fede in Cristo e le sue conseguenze.
La profondità della nostra vita sta in Cristo. Da lui proviene, in ogni momento, la possibilità stessa della fede, del rapporto con Dio, che, quando è autentico, è il rapporto che Dio in Cristo vuole stabilire con noi, mediante lo Spirito. È lo stesso Dio che ha suscitato Israele e che ha agito nella sua storia. La nostra Bibbia comprende l’Antico Testamento. Oggi fra i cristiani più consapevoli c’è la tendenza a chiamare l’Antico Testamento «Scrittura di Israele» o «Bibbia ebraica». Come se non fosse anche Bibbia cristiana. È parte indispensabile della nostra Bibbia. Per una ragione profonda: grazie a Cristo, la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti è anche diventata la nostra, la storia del popolo di Israele è anche la nostra storia. Da ciò non deriva alcuna ragione di superiorità dei cristiani sugli ebrei. La nostra partecipazione alla salvezza promessa a Israele è pura grazia, che accogliamo come un dono che non abbiamo minimamente meritato e che abbiamo calpestato quando abbiamo perseguitato Israele.
Veniamo al primo aspetto del pensiero di Paolo. Riconosciamo anche noi che le prerogative di Israele conservano tutto il loro valore. Il fatto che abbiano un vivo significato anche per noi non ci dà il diritto di intrometterci nel rapporto che Dio vuole avere con il suo popolo. Non esiste un diritto dei cristiani di punire gli ebrei per la loro incredulità. Lo stesso Paolo accetta la tristezza e la sofferenza che gli causa l’atteggiamento degli ebrei suoi contemporanei, ma non mette in discussione il diritto che Dio ha conferito loro. Questa posizione è per noi di estrema importanza e ha una valenza positiva: Dio vuole l’esistenza di Israele. La vita e lo sviluppo di Israele hanno la loro autonomia, non dipendono da noi.
Ciò non toglie che vi siamo interessati. Dagli ebrei e dalle ebree di oggi, dalla loro lettura della Bibbia, dalla loro interpretazione del mondo, continuiamo a imparare. Non solo, ma abbiamo nei loro confronti un’attesa a cui è bene non rinunciare. Al termine della sua trattazione nella Lettera ai Romani, al v. 26 del capitolo 11, Paolo dice: «Tutto Israele sarà salvato». Che un giorno l’ebreo Gesù possa essere riconosciuto dal suo popolo come il punto di arrivo della promessa fatta ad Abramo, è una prospettiva che per un ebreo, diciamolo, risulta insensata. Ma se un senso ha per noi, non è certamente quello di una vittoria finale del cristiani. No, non si tratterà di una conquista, ma di una decisione di Dio al cui effetto assisteremo meravigliati. La salvezza per Israele giungerà direttamente, non passerà attraverso la testimonianza della chiesa (non ha senso un’evangelizzazione verso Israele). Alla chiesa non resta che vivere il rapporto con Cristo con la massima apertura verso il modo in cui Cristo può essere ricevuto e capito da Israele. Questo forse è anche il senso profondo di ogni dialogo interreligioso.