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«Mi hanno venduto come schiavo». I racconti di chi è stato in Libia

Le voci di quattro persone arrivate in Italia grazie ai corridoi umanitari della Federazione delle chiese evangeliche

«In Libia dei banditi mi hanno venduto come schiavo. Ho passato il carcere, ho visto ogni tipo di violenza, io lo so che non sono in pace…A un certo punto abbiamo preso un barcone. Alcuni si sono gettati in mare, sono sopravvissuti. Ma ci hanno riportato di nuovo in Libia, ancora in carcere. Violenza, fame, sete. Devi immaginare le cose peggiori». Parla tantissimo e veloce, Yaqob Idres, classe 1998, quando racconta degli anni in cui è stato in Libia.
È nato in Sudan, uno degli ospiti della Casa delle culture di Scicli, in provincia di Ragusa, una delle iniziative nate in seno a Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, finanziato in larga parte dall’Otto per mille valdese.

«Eravamo 35 persone in un garage che non era nemmeno un garage, a terra, solo botte, non c’era da mangiare o bere. Se non chiami la tua famiglia e ti fai dare dei soldi, il giorno dopo ti chiedono più soldi, ti bruciano il corpo…"Ti vendiamo”, lo sentiamo dire ogni giorno. Ce lo urlano. Ti buttano l’acqua addosso per svegliarti. In Libia è impossibile vivere, stavo per impazzire. Ho visto la morte, se non ti salvi nessuno ti salva», continua. «Siamo riusciti a scappare, un’altra volta, con un gruppo, ma ci hanno ripreso. Io nel frattempo avevo problemi alla schiena, me l’hanno rotta. Ho subito un intervento, sono andato con la sedia davanti a un ufficio (di un’istituzione sovranazionale, ndr) e loro mi hanno fatto l’operazione, dopo 3 mesi ho ripreso a camminare».
Da un anno vive in Sicilia, sta studiando l’italiano e come gli altri beneficiari dei corridoi umanitari ha ottenuto la protezione internazionale, lo status di rifugiato. «Qui è tutto diverso, puoi sognare di andare a lavoro, puoi studiare, puoi costruire un piccolo futuro, un po’ di autonomia, andare avanti». E il futuro? «Mi vedo con un piccolo progetto, con una famiglia, con dei bambini, e vorrei aiutare le persone che hanno bisogno. Per me l’importante è la pace».

I progetti futuri sono difficili da immaginare, la migrazione, anzi la Libia, sembra annullarli, sempre se sono mai esistiti. Emerge che l’unico sogno è sopravvivere. O scappare da quell’inferno, o entrambe le cose. E i ricordi, anche quelli, sono difficili da verbalizzare.

Ta’ah Ali Mohammed ha 21 anni, è nato in Sudan, e del suo Paese natio dice «non c’era niente, solo problemi. Me ne sono andato in Libia a 14 anni, da solo, sono passato da un inferno all’altro. Sono stato 4 anni in Libia, la “cosa minore” che ti può succedere lì è il carcere. La Libia è peggio della mafia», chiosa. Ha dei gravi problemi di salute, sta affrontando un lungo percorso di cure mediche, con una terapia complessa e alcune problematiche non risolvibili, in sostanza.

Ora come stai, gli chiedo. «Un anno è come se fosse un mese, il tempo vola qui», risponde, ridendo. «Sono certo che vado a migliorarmi, basta che c’è la volontà, è difficile sognare ma se ci credi ci si arriva…Sicuramente il mio futuro, la mia vita, migliora. Sono una persona che ama stare con gli altri, amo tutto di Scicli, le cose andranno bene».

Sorride tanto Metwakel Brima, 27 anni, nato in Sud Sudan, dice che cerca di far sorridere anche gli altri suoi compagni di questa avventura, i ragazzi coi quali condivide gli spazi e la vita alla Casa delle culture. «Mi trovo bene, in un anno e mezzo non ho mai visto nessun razzismo…No, non ho amici italiani. Faccio dei lavori saltuari, ho studiato italiano», racconta. L’anno prossimo farà l’esame di terza media. Qual è la tua giornata-tipo? «Bevo il caffè, se c’è un lavoro vado a lavoro, guardo video su youtube, per praticare anche in questo modo l’italiano. Il pomeriggio vado al parco con gli amici, preparo la cena, poi vado a letto, nel tempo libero più che altro studio». Il suo ricordo più bello è «quando ero bambino», la sua passione più grande «la storia del Sudan».

Il ricordo del Sudan e dell’infanzia è la prima cosa che si palesa anche nelle parole di Ahmer Hussain, nato nel 1998, agricoltore: «Aiutavo la mamma in Sudan nei campi, ogni giorno, dopo la scuola, avevamo una vita normale. Qui in Sicilia coltiviamo pomodori, fave cipolle, melanzane, in Sudan legumi e carote. Vorrei avere un terreno tutto mio».

Nel 2011 la guerra, la decisione di scappare nella capitale sudanese, Khartoum: «Ma anche lì c’erano problemi, ci prendevano a calci…Non so dove sono i miei genitori. Mia sorella vive ancora a Karthoum, ci sentiamo ogni tanto». E poi la Libia. «Ho messo i soldi da parte, per andare in Libia. Ho fatto un viaggio durato quasi due mesi, attraverso il deserto, con le macchine, passando dal Ciad, nel 2017. Ogni tanto la macchina si rompeva e dovevamo fermarci. Ho pagato il viaggio 35.000 sterline sudanesi (equivalgono a circa 50 euro, ndr), il valore di una piccola auto, per capirci».

Cosa vuol dire stare in Libia, com’è? «La Libia è il posto più brutto che ho visto in Africa, nella mia vita. Ti possono bruciare, sparare, mettere in carcere, ucciderti per rubarti un auricolare. Non c’è nessuna legge, non ci sono tribunali, se non ti pagano per il tuo lavoro». Cosa vuoi fare ora? «Voglio solo stare bene».


Da Nev-Notizie Evangeliche

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