In coscienza, no ad armi e divisa
07 dicembre 2022
A 50 anni dal varo della legge che riconosceva il diritto a “obiettare”, ripercorriamo quell’epoca con Aldo Ferrero che come altri pagò il proprio rifiuto nei confronti del servizio militare
Il 15 dicembre 1972 fu approvata la legge 772, che riconosceva l’obiezione di coscienza al Servizio militare: per arrivarvi un prezzo elevato fu pagato da chi rifiutava di imbracciare le armi, scontando periodi di carcere militare: cattolici, gandhiani, radicali, Testimoni di Geova, protestanti. Il Sinodo valdese di quell’anno aveva ricevuto una lettera di Gianfranco Truddaiu, detenuto in attesa di processo nel carcere militare di Peschiera in quanto obiettore, e rispose con un atto di sostegno agli obiettori1. Dopo l’approvazione della legge moltissimi giovani hanno potuto svolgere un servizio civile alternativo, anche in strutture delle chiese evangeliche. Tutti loro sono debitori nei confronti di chi, prima della legge, ha subito le conseguenze della propria obiezione. Fra loro c’era Aldo Ferrero, di Pomaretto nelle valli valdesi, a cui chiediamo di raccontare la sua vicenda.
«Era il 12 febbraio 1969 quando, all’età di 22 anni, mi presentai alla caserma degli alpini di Bra (CN) dove ero assegnato per frequentare il Car (Centro addestramento reclute). Rifiutai di vestire la divisa, rimasi per una decina di giorni in cella di isolamento, fui denunciato alla Procura militare di Torino, e con processo l’8 maggio dello stesso anno condannato a un mese per disubbidienza. Fui difeso dall’avvocato Bruno Segre. In quella occasione, nella quale venne processato un altro obiettore, Pier Carlo Racca, si svolse a Torino una delle prime manifestazioni a favore dell’obiezione di coscienza, organizzata dal “Corpo europeo per la pace”, con la partecipazione di circa 400 persone, secondo i giornali dell’epoca. In seguito, vestii la divisa e feci 15 mesi di servizio militare nelle caserme di Napoli e Udine. Fu quella la mia scelta di fare l’obiezione di coscienza e di rifiutare quel mondo della divisa e della caserma dove si dovrebbero preparare gli uomini a difendere la patria anche con le armi ma in realtà li si prepara ad avere una “obbedienza pronta, cieca ed assoluta”, finendo per avviare la maggior parte di loro a un sostanziale menefreghismo».
– Da dove veniva questa decisione?
«Quella decisione fu il frutto di una lunga e tormentata riflessione, purtroppo condotta in modo solitario, aiutato in primo luogo dalle letture: la vita e gli insegnamenti di Gesù, gli scritti di Martin Luther King e di Aldo Capitini, in particolare la “Lettera ai cappellani militari” di don Milani scritta nel febbraio del 1965. Gandhi e la sua formidabile pratica della disobbedienza civile la approfondii in seguito. Fui sorretto nella mia scelta da poche persone della mia comunità di Pomaretto, in particolare dal pastore Gustavo Bouchard, e da alcuni compagni di lavoro alla SIP di Torino.
Rispetto ai temi dominanti all’interno dei gruppi giovanili valdesi di allora, di contestazione all’istituzione e alla ritualità, riflessi delle lotte sessantottine nella società, quello dell’obiezione di coscienza al servizio militare e della lotta nonviolenta era marginale, considerato “poco politico”. Perciò il mio gesto non suscitò, mi pare, grossa discussione. Nella mia comunità, anzi, fu preso con molta freddezza e contrarietà, fino ad arrivare agli insulti rivolti ai miei genitori. Un sostegno decisamente positivo lo ricevetti dal pastore Giorgio Girardet, che pubblicò una mia testimonianza sul settimanale Nuovi tempi nel maggio del 1969, dopo il processo.
Come si vede, una scelta la mia molto divisiva per la chiesa. Per me, invece, fu decisiva, tale da improntare tutta la mia vita futura, fino a oggi, quando, evaporata la fede e ormai fuori dalla chiesa, rimane intatta la carica etica e morale di quella scelta. Fu importante giocare qualcosa di mio, qualcosa in cui la testimonianza diventava concreta e vissuta, non solo detta. Fu importante soprattutto la decisione di rendere partecipi del mio gesto e delle mie idee quei giovani che vivevano la mia stessa condizione, gli altri soldati della caserma, con i quali mi ritrovai a condividere le ore e i giorni. Quella decisione di andare oltre il gesto eroico, di superare il rischio di un irrigidimento ideologico (che mi avrebbe lanciato in un circolo vizioso di prigione, successivo richiamo, prigione più lunga, altro richiamo, e così via… come succedeva ai Testimoni di Geova), fu per me molto sofferta, presa in totale isolamento, solo con la mia coscienza. La ricompensa fu grande però, soprattutto nei primi mesi, quando riuscii tutte le domeniche mattina a organizzare un gruppetto di persone con le quali leggere la Bibbia e discutere della nostra condizione, in alternativa alla messa a cui eravamo tutti comandati».
– Rifiutare il servizio militare non era l’unica forma di impegno antimilitarista: vi era chi – come i Proletari in divisa (Pid) – riteneva più opportuno arruolarsi e svolgere nelle caserme opera di sensibilizzazione contro la guerra e il riarmo...
«Il movimento dei “Proletari in divisa” si sviluppò, se pure in forma estremamente minoritaria, a partire dal 1970, come emanazione del gruppo di “Lotta continua” nelle caserme. Lo scopo era quello di sviluppare la lotta di classe all’interno degli apparati militari. A esso e ai movimenti nonviolenti si opponeva il Partito comunista, che prospettava invece la democratizzazione delle Forze armate, individuando come mezzo trasformatore il servizio di leva dei soldati. Ne discutemmo in modo appassionato durante un campo studi di Agape nel settembre del 1973, intitolato “Le Forze armate: Per farne che cosa?”».
– Oggi esiste un servizio civile per tutti a vantaggio della collettività e del territorio: non dovrebbe essere obbligatorio?
«Durante un dibattito a Torre Pellice e poi con un articolo sul giornale delle chiese valdesi e metodiste La luce, nel lontano 1989, ebbi modo di articolare una proposta di Servizio civile nazionale obbligatorio per tutti, uomini e donne. Un servizio di tutti i cittadini che dedicano un periodo della loro vita (6-9 mesi) alla collettività, sotto diverse forme e secondo il miglior utilizzo delle capacità proprie, sottoposto a un controllo democratico con la gestione dello Stato. Un servizio di tutti per tutti. Ebbe poca o nulla considerazione. Sono passati più di trent’anni. Ha ancora un senso nell’epoca del servizio militare professionale? Direi di sì, più che mai. Ma interesserebbe a qualcuno? Chissà, se si provasse a riemergere dalle paludi del facile consenso e del politicamente corretto, rispolverando la dimenticata pratica della disobbedienza civile».
1. L’antimilitarismo oggi in Italia (a cura di Giorgio Rochat con la collaborazione di F. Giampiccoli, E. Rivoir e M. Rostan),. Torino, Claudiana, 1973, pp. 188-191).