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L’immigrazione è climatica

Il nuovo Dossier statistico immigrazione Idos-Confronti ricorda che è in particolar modo la crisi climatica a generare le migrazioni…

«Nel 2021 i primi Paesi di origine delle persone arrivate nella nostra penisola erano tra quelli più colpiti da siccità e alluvioni. E il numero di migranti ambientali nel mondo è in continua crescita: secondo la Banca  Mondiale diventeranno 220 milioni nel 2050. Un fenomeno, aggravato dalla guerra in Ucraina», si legge nell’anticipazione del Dossier statistico immigrazione Idos-Confronti che sarà presentato in questi giorni, in tutta Italia (qui l'elenco delle presentazioni) e in anteprima nazionale il 27 ottobre a Roma(alle 10, 30 al Nuovo Teatro Orione) insieme, tra i tanti, a Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese, alla giornalista Eleonora camilli, al sociologo Maurizio Ambrosini, alla scrittrice Djarah KanLuca Di Sciullo (Idos) e Claudio Paravati (Confronti).   

Il nostro pianeta, ammette con sconcerto il Dossier, è in sofferenza e una persona su settantotto è costretta a lasciare la propria abitazioneAlla fine del 2021 il mondo contava 89,3 milioni di migranti forzati (un aumento dell’8% rispetto all’anno  precedente) arrivati a superare la soglia dei 100 milioni dopo l’invasione russa dell’Ucraina (iniziata il 24 febbraio). 

A questi dati, ricorda il Dossier, si devono aggiungere coloro che si possono definire «i migranti forzati per cause climatiche, il cui numero resta per lo più non dichiarato, visto che in Italia e in Europa ai migranti climatici in quanto tali non viene riconosciuto lo status di rifugiato». 

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), negli ultimi quindici anni «i disastri naturali sono stati la causa principale della maggior parte degli sfollamenti interni». 

Nel 2021 si sono registrati 23,7 milioni di nuovi sfollati per cause ambientali, contro i 14,3 milioni prodotti dai conflitti. 

Tra i Paesi più colpiti emergono la Cina, le Filippine e l’India. 

Secondo la Banca mondiale, «entro il 2050 i migranti ambientali potrebbero arrivare a 220 milioni di persone. 

Gli sfollati del clima sono invisibili per la legge, ma già presenti anche nei Paesi ad alto reddito, come quelli europei». 

Il Dossier ricorda però che l’impatto del cambiamento climatico non è uguale per tutti

Una maggiore vulnerabilità può essere ricondotta sostanzialmente a tre fattori principali: «geografico, ossia vivere in aree più fragili e maggiormente esposte agli effetti del riscaldamento globale; socio-economico, legati all’assenza di risorse e servizi, all’incapacità di adattarsi o prevenire gli impatti della crisi climatica-ambientale; fisiologico, connesso alle specificità di singole categorie (bambini, donne, anziani). In sintesi, a essere colpiti sono soprattutto i Paesi poveri e i poveri che vivono nei Paesi ricchi».

Se si guarda ai flussi migratori verso l’Italia, le nazionalità dichiarate dai migranti sono riconducibili ai Paesi che stanno soffrendo maggiormente la pressione del cambiamento climatico: «Nel 2021 - ricordano ancora Idos e Confronti - tra i primi Paesi di  origine troviamola Tunisia, l’Egitto, il Bangladesh, l’Afghanistan, la Siria, la Costa d’Avorio, l’Eritrea, la Guinea, il Pakistan e l’Iran. 

Parliamo di Paesi dipendenti dal grano russo e ucraino e aree del mondo allo stremo per la siccità intervallata da alluvioni, per l’innalzamento delle temperature medie e per le conseguenti carestie che stanno affamando decine di milioni di persone».

A far crescere il numero degli sfollati, infatti, «sono i conflitti disseminati in tutto il mondo, che non  provocano solo morti e distruzione di intere città, ma generano un forte impatto ecologico che peserà anche sulle future generazioni. Un esempio è il conflitto in Ucraina che ha innescato anche un’altra guerra, molto subdola, quella del grano e dei cereali, che a sua volta rischia di peggiorare la già precaria sicurezza alimentare in diversi Paesi del mondo e il cui effetto sui prezzi delle materie prime alimentari potrebbe farsi sentire a lungo termine (Russia e Ucraina, secondo i dati della Fao, producono il 12% di tutte le calorie  alimentari importate ed esportate a livello globale, controllando il 29% dell’export totale di grano)». 

La dipendenza dal grano, si legge ancora, proveniente dai due Paesi belligeranti, unitamente alla crisi climatica in corso – in particolare per quanto riguarda il Medio Oriente, l’Africa settentrionale e subsahariana – «minaccia quindi di far aumentare la spinta migratoria dalla sponda Sud del Mediterraneo.

Ad accogliere «l’esodo di milioni di sfollati» sono, principalmente, «Paesi con risorse precarie e a loro volta fragili anche da un punto di vista ambientale. Nel 2021, l’83% dei rifugiati è stato accolto in Paesi a reddito basso o medio». Eppure - chiosa i Dossier -, «negli Stati più ricchi e maggiormente responsabili della crisi climatica continua a diffondersi un allarmismo sull’arrivo in massa di profughi climatici». Sempre più il denaro pubblico viene utilizzato per militarizzare i confini e non per ridurre le cause del disastro climatico, «alimentando il cosiddetto global climate wall, un muro climatico globale, fatto d’ingenti investimenti economici per barriere, droni, tecnologie di sorveglianza, a detrimento degli aiuti necessari ai Paesi più vulnerabili per mitigare e adattarsi al cambiamento climatico».

Inoltre «l’invasione russa in Ucraina e la conseguente crisi dei prezzi del gas (esplosa già nella seconda metà del 2021), hanno riacceso in Europa i riflettori sui rischi legati alla dipendenza energetica dall’estero (la Russia è il primo esportatore mondiale di gas naturale e il secondo esportatore di petrolio) e spinto diversi Paesi a riaprire le centrali a carbonee a pensare di poter autorizzare nuove trivellazioni per estrarre combustibili fossili» e dunque a considerare l’energia nucleare una soluzione ai problemi energetici. Scelte «cheallontanano dalla riduzione delle emissioni di Co2, la prima causa del cambiamento climatico». 

 

 

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