Medio Oriente. Due Stati come soluzione del conflitto
29 settembre 2022
L’intervento del primo ministro israeliano Lapid all’Assemblea delle Nazioni Unite ripropone una ipotesi che pareva essere stata accantonata, ma problemi interni da ambo le parti rischiano di vanificarla
Il primo Ministro ad interim Lapid in un frangente delicato per il Medio Oriente e con il suo paese prossimo all’ennesima, incerta tornata elettorale in poco più di tre anni ha manifestato in un discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite il suo sostegno alla soluzione “a due Stati” del conflitto israelo-palestinese. Posizione importante, controversa nel paese, per anni disattesa, ignorata e violata nei fatti dal succedersi dei governi di destra guidati dal Likud di Netanyahu.
«J-Link applaude all’annuncio, si augura che esso migliori le relazioni fra Israele e i palestinesi e preluda a un accordo di pace che traduca in realtà il diritto all’autodeterminazione di ambedue le nazioni. Perché ciò avvenga, le parole non bastano…». Così recita un comunicato di J-Link – una rete ebraica internazionale che unisce movimenti progressisti in Israele e nei paesi della Diaspora (materiale è disponibile in www.jlinknetwork.org). Il conflitto che avviluppa i due popoli da oltre cent’anni contrappone due movimenti nazionali che rivendicano lo stesso diritto su uno stesso lembo di terra conteso: anche le ironie della demografia li appaiano (circa 7 milioni di ebrei e un analogo numero di arabo-palestinesi abitano il territorio compreso fra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano).
Lo status quo non è tollerabile, come dimostrano le esplosioni ricorrenti di violenza, un’occupazione di territori abitati da palestinesi che perdura da 55 anni, le stesse violenze interetniche scoppiate nel 2021 fra ebrei e arabi cittadini di Israele. Soprattutto il ripetersi di una guerra distruttrice con Hamas nella striscia di Gaza, gli immani costi materiali, le aggressioni contro israeliani all’interno del paese o sulle strade cisgiordane, la debolezza endemica dell’Autorità palestinese e il pervicace rinvio di elezioni per il Consiglio nazionale e la presidenza, dimostrano che il costo della non-pace è enorme e l’illusione che i palestinesi accettino un’occupazione umiliante è pericolosa per lo stesso Israele.
È ancora possibile la soluzione “a due stati”?
Al di là dei fatti contingenti, vi è in atto da tempo uno spostamento della società israeliana verso posizioni etno-nazionaliste. Il Likud sostiene l’annessione in parte o in toto della Cisgiordania. Alcuni dei partiti minori alla destra del Likud si sono spostati su posizioni vieppiù radicali fino a sposare l’ideologia di coloro che non solo predicano l’annessione dei territori ma anche l’espulsione dei palestinesi. Fenomeno dovuto alle trasformazioni sociali e demografiche del paese, quali la grande immigrazione dalla Russia post-sovietica dei primi anni ’90 e il crescere del peso di correnti religiose fondamentaliste. Ma anche alla reazione alla strada nichilista imboccata dai palestinesi: la violenza terroristica dell’Intifada negli anni 2001-05 e la guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla striscia di Gaza.
Non sono solo gli oltre 400.000 coloni negli insediamenti in Cisgiordania a rendere la soluzione “a due Stati” sempre più difficile nei fatti; anche una vasta parte della società preferisce i palestinesi “invisibili” dietro il muro di separazione. Secondo serie inchieste d’opinione appena poco più di un terzo degli israeliani sostiene convinto una soluzione “a due Stati”, il 19% opta per uno Stato unico, democratico ed egualitario, il 15 % propugna l’annessione piena dei territori senza diritti politici per i palestinesi, il resto non risponde. In questa grande incertezza, la spinta egemone nei governi è stata quella di mantenere lo status quo, senza un’annessione formale ma espandendo senza limite alcuno gli insediamenti e i loro residenti.
Questo stato delle cose sul campo rende urgente che la leadership israeliana assuma un impegno fattivo verso la soluzione “a due Stati” in vista delle elezioni di novembre e che gli stessi accordi di normalizzazione conclusi con gli Emirati e il Bahrein, oltre a facilitare l’integrazione di Israele nella regione, possano agire sull’opinione pubblica del paese al fine di spingerla per una soluzione negoziata del conflitto con i palestinesi. A tal fine sarebbe necessario che il prossimo governo, sotto l’impulso di Stati Uniti, paesi della Unione europea e altri, che il governo di Israele aprisse a un negoziato con Abu Mazen e ponesse fine ad atti di annessione, demolizioni di case e strutture civili in Cisgiordania, confische di terreni che acuiscono il conflitto e pregiudicano la nascita di un futuro stato di Palestina degno di questo nome.