L’Italia che va a destra-centro
26 settembre 2022
Una riflessione a commento delle elezioni del 25 settembre
L’Italia svolta nettamente a destra e, salvo incidenti istituzionali oggi imprevedibili, tra qualche settimana Giorgia Meloni potrà varcare il portone di Palazzo Chigi. L’Italia ha già conosciuto governi di Centro-destra: per limitarci agli anni del “dopo Tangentopoli”, le varie coalizioni guidate da Silvio Berlusconi comprendevano esponenti “post-fascisti” del calibro di Gianfranco Fini, Pinuccio Tatarella, Mirko Tremaglia, Ignazio Larussa, Francesco Storace, tutti provenienti dalla scuola missina e cresciuti sotto l’ala protettrice dell’ex repubblichino Giorgio Almirante. Non è questa, quindi, la novità determinata dalle elezioni del 25 settembre. La svolta sta nel fatto che a guidare la coalizione che detiene la maggioranza in entrambe i rami del Parlamento sarà una politica cresciuta nel milieu culturale e politico della destra sociale, e che la componente moderata della coalizione – Forza Italia – è ridotta a una minoranza, oltretutto penalizzata da una leadership che ha definitivamente perso la sua carica carismatica. Ai blocchi di partenza della legislatura, insomma, vedremo una coalizione di destra-centro, quindi, più che di centro-destra, guidata una leader forte di un ampio consenso. In questa prospettiva, l’appassionata difesa della fiamma missina nel simbolo di Fratelli d’Italia non va considerata come un residuo nostalgico ma come rivendicazione identitaria di una storia e di una tradizione che ridefinisce gli equilibri della coalizione e la allinea ad analoghe forze della Destra europea
E così, se Berlusconi ha lungamente inseguito il Partito popolare europeo e a Bruxelles la Lega salviniana si è spesso alleata ai coloriti movimenti independentisti, FdI mostra di guardare ai partiti “sovranisti” e a quei leader che, mentre cercano di guadagnare i vantaggi che l’Unione garantisce ai paesi membro, ne contestano la governance e i poteri sovranazionali. Mostrandosi a braccetto con Orban in Ungheria, Duda in Polonia, gli attivisti catto-nazionalisti di Vox in Spagna, la leader di FdI sceglie un’Europa di fatto antieuropeista, che vuole sottrarre potere alle istituzioni dell’Unione e restituire sovranità agli Stati: un programma esplicitamente nazionalistico, del tutto legittimo sul piano ideale e politico ma oggettivamente problematico per un Paese candidato a essere tra i massimi beneficiari dei fondi del Next generation EU, quelli che stanno finanziando il Pnrr. La sintesi tra la rivendicazione sovranista da una parte e il ricorso ai fondi europei dall’altra appare oggi la sfida più ardua del Destra-centro a trazione FdI.
Sul resto si vedrà. In campagna elettorale si sono dette tante cose: intervento sulle pensioni, flat tax, blocco navale contro le migrazioni, presidenzialismo; qualcuno ha anche parlato di revisione della legge sull’aborto. Non sempre l’azione di governo corrisponde agli annunci e tante delle affermazioni pronunciate nella libertà di una campagna elettorale improvvisata e confusa non sono costituzionalmente plausibili o economicamente sostenibili. Oltretutto, la maggioranza esiste ed è ampia ma, come altre volte abbiamo visto, nel corso della navigazione potrebbe incrinarsi e perdere qualche pezzo.
Molto dipende anche dagli sconfitti, da come interpreteranno i risultati e da come sapranno gestire l’opposizione. I risultati impongono al PD, oltre che un bagno di umiltà, una riflessione seria su ciò che vuole essere: sconfitto dal populismo di destra oggi vincente, e inseguito da quello di sinistra del M5S, deve spiegare a se stesso e agli elettori che cosa vuole essere: dalla crisi di governo in poi, infatti, è sembrato appiattirsi sull’agenda Draghi, rinunciando a dire “qualcosa di sinistra”, a esempio ai giovani di “Fridays for future”, o ai rider sottopagati, al mondo delle ONG, che tra mille avversità continua a gestire i salvataggi in mare, ai lavoratori anziani che non riescono ad andare in pensione. Il PD non sembra capire che da tempo non ha più il monopolio della rappresentanza dei disagiati, dei precari, di quella società civile che si impegna sui temi dell’ambiente, della solidarietà, della legalità. Il più grande partito di opposizione oggi ha bisogno di ascoltare che cosa si dice nelle periferie, nelle aree interne o in quelle postindustriali; per ritrovare la sua anima, deve recuperare il gusto della buona politica che si fa non per interesse personale o di apparato ma perché si spera di migliorare la vita della gente a cui si chiede il voto. C’è un mondo che Draghi, l’UE, Von der Leyen non vedono e non intercettano, e di cui il PD sembra essersi dimenticato. Il partito di Letta non è il centro del mondo politico italiano: se vuole avere un ruolo deve cercare e costruire alleanze che talvolta possono essere difficili e rischiose. Ma tra due rischi – l’alleanza difficile o la sconfitta plateale – forse è meglio correre il minore dei due.
A cavalcare il disagio e la precarietà, ci ha provato il M5S che, forse grazie a questo scatto, è riuscito a contenere una crisi che avrebbe potuto metterne in discussione la stessa sopravvivenza politica. E tuttavia, anche Conte e i suoi devono capire che la politica non è celebrazione dell’autosufficienza e che ci sono dei momenti in cui la buona politica non è movimentismo né agitazione ma responsabilità.
L’altra novità uscita dalle urne è l’esistenza di un “centro”, sia pure bicefalo e non sappiamo dire quanto omogeneo. Renzi e Calenda sono due personaggi complessi e, come abbiamo visto, capaci di acrobatiche capriole politiche che in poche ore possono distruggere patti e alleanze elettorali. Per quanto inferiore al previsto, il risultato non è irrilevante: da decenni l’Italia soffre della mancanza di un polo centrista, autenticamente liberale ed europeo, schierato sui temi della legalità e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Il mancato accordo con Azione e +Europa, però, segna anche il limite di questa formazione che fatica ad accogliere al suo interno altre, preziose risorse come la voce di Emma Bonino e altri esponenti radicali. Peccato, ce ne sarebbe stato bisogno.
Il rischio, infatti, è che dall’agenda di questa legislatura sparisca il tema dei diritti: quelli degli immigrati e dei richiedenti asilo, delle coppie di fatto e LGBT, delle madri single o delle ragazze che vivono una maternità indesiderata, delle minoranze etniche e religiose, dei carcerati, dei senza casa, di quanti si pongono il problema di un fine-vita nella dignità. Ma per quanto poco popolari è su questi temi che si misura la civiltà e la forza di una democrazia.