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La “tristezza secondo Dio”

Un giorno una parola – commento a II Corinzi 7, 10

«Tu arrossisca e tu non possa più aprir la bocca dalla vergogna, quando ti avrò perdonato tutto quello che hai fatto», dice il Signore, Dio
Ezechiele 16, 63

Perché la tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del quale non c'è mai da pentirsi; ma la tristezza del mondo produce la morte.
II Corinzi 7, 10

Com’è solito fare, l’apostolo Paolo distingue fra due dimensioni: quella del mondo e della “carne”, chiusa nell’ambito dell’esistenza terrena, caratterizzata dalla lontananza da Dio e dal peccato, e, di conseguenza, dalla morte e quella di Dio, vissuta in Cristo da figli e figlie di Dio, nutrita dalla presenza e dall’azione dello Spirito, conforme alla volontà di Dio, vita vera, qui e oltre questa vita e questo tempo. Ci sono, quindi, due motivazioni e due possibilità di essere tristi. Una che viene dal mondo e una che è “secondo Dio”. Ben conosciamo la tristezza del mondo. Può essere la naturale reazione ad un momento doloroso e difficile: un fallimento, una perdita, un abbandono. Spesso, in tale caso, la stessa energia vitale aiuta a superare quella tristezza: in particolare sono i giovani quelli che, per la forza stessa della vita, che reclama le sue ragioni, riescono a passare oltre e a guardare al domani. Talora, però, quella tristezza si fa sottile e penetra nell’animo e nel cuore come un veleno, non ha una causa evidente, ma consuma e neutralizza ogni forza vitale, fino a portare al disgusto della vita, a desiderare o preferire la morte. Diverse sono le reazioni possibili: da una resa incondizionata, che è triste rassegnazione, ad una ribellione che reagisce a quella tristezza con la ricerca di stimoli sempre più potenti ed estremi, fino all’affrontare la morte per riaffermare ogni volta di essere vivi.

La “tristezza secondo Dio” è ben altro. Come sotto la neve che copre i campi di grano di nasconde il pane di domani, si cela in essa il seme di una gioia futura, di una serenità profonda e di una sicurezza che, trovando in Dio il proprio fondamento, non sono come quelle, apparenti, del mondo. Il frutto di questa tristezza, che è consapevolezza del proprio errore e del proprio errare senza meta, del vuoto di un’esistenza spesa ad inseguire cose effimere, che è, ancora, rammarico del tanto tempo gettato via per non stringere alla fine nulla, che è disorientamento e inquietudine, il suo frutto, si diceva, è il ravvedimento. Dio stesso ha già cominciato ad operare, con il suo Spirito, per ricondurre a sé chi provi una tale tristezza: quella del figliol prodigo (Lc 15, 11-32), che ha perduto tutto, ma sa che una speranza c’è, se tornerà da suo padre; quella di Zaccheo, il quale sente dentro di sé che solo Gesù potrà calmare l’inquietudine che lo divora (Lc 19, 1-10). Il ritorno al Padre, l’incontro con Gesù permettono di trasformare tristezza e inquietudine nel loro contrario: l’accoglienza del padre al figlio pentito, che allude a quella di Dio, e la disponibilità di Gesù all’incontro con il pubblicano che vuole cambiare vita, vanno, poi, al di là di quanto si potesse ragionevolmente sperare. Ciò che è ragionevole per l’uomo non lo è per Dio, la sua grazia è oltre il ragionevole: il peccatore che torna è accolto, la tristezza, che viene da Dio e a Dio conduce o riconduce, diventa gioia; gioia vera però, non quella fragile che il mondo talvolta dà.

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