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Formazione pastorale clinica: discrezione, empatia, umanità

È in corso a Genova una nuova edizione del corso per cappellani, insieme a 4 tirocinanti provenienti dalla Facoltà valdese di teologia. Intervista al supervisore, pastore Sergio Manna

Si sta svolgendo a Genova, presso l’Ospedale evangelico internazionale, la seconda settimana del corso “Clinical pastoral education” (CPE). Ne parliamo con il supervisore, pastore Sergio Manna.

Cos’è la CPE?

“Clinical pastoral education” (CPE) significa formazione pastorale clinica. È una disciplina nata intorno al 1920 negli Stati Uniti d’America, per iniziativa del pastore presbiteriano Anton Theophilus Boisen.

Si tratta di un corso obbligatorio per chi studia presso la Facoltà valdese di teologia e si avvia al ministero pastorale o diaconale, per la consacrazione. Stiamo parlando di studenti e studentesse provenienti dalle chiese battiste, metodiste e valdesi. Anche se questo tipo di formazione ha una valenza ecumenica e interreligiosa.

Chi sta svolgendo il corso e in quali modalità?

Normalmente un supervisore può avere fino a un massimo di 6 tirocinanti. Siamo riusciti a organizzare due sessioni, una in corso nel mese di giugno e una a settembre, con 4 tirocinanti ciascuna. Questo ci permette di fare un lavoro estremamente accurato. Il percorso prevede una formazione specifica su come si fa pastorale clinica con i pazienti ospedalizzati, con i familiari e con i caregiver. Si alternano parti didattiche (alle quali contribuiscono anche membri del personale medico e infermieristico) e parti operative, nelle quali i tirocinanti del corso visitano i pazienti. In qualità di supervisore, assegno ogni tirocinante a un reparto o a sezioni di vari reparti. Sono poi previsti dei momenti di supervisione, sia di gruppo sia individuali. Non si tratta solo di un’esperienza di ministero pastorale. È anche un lavoro su se stessi.

I tirocinanti attualmente in formazione sono due battisti (Simone De Giuseppe e Nicola Laricchio) che si avviano al pastorato, una diacona valdese consacrata l’anno scorso (Monica Natali) e una candidata in prova di origine tedesca che dovrebbe essere consacrata quest’anno (Sara Heinrich). [nella foto, con Sergio Manna al centro, ndr].

Come e quando è iniziato questo percorso in Italia?

In Italia i primi corsi sono iniziati a Napoli nel 1999, sotto la guida del pastore battista Massimo Aprile, presso l’Ospedale evangelico Villa Betania, al quale sono poi subentrato io alcuni anni dopo. Poi si sono spostati presso l’Ospedale valdese di Pomaretto, quando sono stato eletto pastore in quella sede. Successivamente, con la progressiva riduzione dei posti letto presso quella struttura, ci siamo spostati a Genova Voltri, presso l’Ospedale evangelico internazionale, nel quale il primo corso ha visto la luce nel 2014. Alla fine di quel corso il personale della struttura ci chiese: “E adesso chi di voi rimane qui come cappellano?”. Ormai il corso di CPE è diventato un progetto consolidato ed è un fiore all’occhiello sia per l’Ospedale sia per la nostra Facoltà di teologia. In questi anni sono stati organizzati seminari di formazione sul fine vita e sulla umanizzazione delle cure anche per il personale medico e infermieristico della struttura e ormai i medici, le infermiere e perfino i primari apprezzano la presenza di questi tirocinanti che si siedono a fianco alle persone degenti, le ascoltano, le supportano e sono anche a disposizione del team con discrezione, empatia e umanità.

A proposito di empatia, non c’è il rischio di assorbire troppo l’onda d’urto del dolore altrui?

I nostri tirocinanti sono addestrati a lavorare con empatia, ma senza cadere nella disperazione del paziente. Questo è proprio uno dei punti cruciali della formazione, in cui ci si prepara a questo tipo di lavoro. Utilizziamo l’ascolto empatico e le risorse spirituali sia del paziente, sia del cappellano. Impariamo quando, come e se proporre letture o preghiere, che siano incarnate nel momento presente e diano voce allo stato d’animo della persona.

Può raccontarci qualche esperienza che ha trovato particolarmente bella e motivante?

Abbiamo assistito sempre di più a situazioni significative. Abbiamo caposala del reparto che segnalano esplicitamente ai nostri tirocinanti una persona che ha bisogno di vicinanza o di ascolto. Può esserci un malato terminale, oppure una persona che attraversa un momento di particolare fragilità o solitudine. È capitato che durante la prima visita di una tirocinante arrivasse il momento della somministrazione dei farmaci e della visita medica, e che il personale ospedaliero dicesse esplicitamente di voler aspettare perché quel certo paziente ha molto bisogno di ascolto. Il messaggio che ci arriva è: quello che fate è importante. È il segno di un pieno riconoscimento di questo ministerio, che non è di intralcio, ma di aiuto.

Come funziona il corso?

Si vive e si lavora in ospedale. Ci sono parti teoriche e parti pratiche. Si fa il “giro dei reparti”, inizialmente con me in qualità di supervisore, mentre loro osservano come faccio una visita. Dopo si discute insieme e, quando sono pronti, sono loro a iniziare la visita. La formazione è molto strutturata. Ad esempio, ciascun tirocinante scrive una autobiografia, riservata, e la consegna al supervisore. Quest’ultimo può aiutare a mettere a fuoco gli eventi importanti o eventuali traumi che incidono nella relazione con i pazienti. Questi eventi, infatti, possono diventare risorsa o impedimento per la cura pastorale. Si lavora, quindi, su ogni singola persona.

 

Come si diventa supervisori?

Si diventa supervisori con un lavoro molto intenso. Il livello superiore della pastorale clinica, quello appunto per poter fare attività di supervisione, si svolge negli USA e richiede almeno tre anni. Per la pastorale basilare invece basta un mese intensivo in Italia che corrisponde a metà percorso del suo equivalente oltre oceano (che normalmente dura tre mesi). Il nostro è un corso riconosciuto dal College of Pastoral Supervision and Psychotherapy, organismo internazionale di cui sono membro. Interessante è il fatto che sia un corso di stampo ecumenico. Fra i partecipanti, ad esempio, ho avuto, a suo tempo, anche un parroco cattolico. Negli Stati Uniti vengono formati in CPE anche i rabbini. E recentemente abbiamo avuto una manifestazione di interesse da parte buddhista.

Il paradosso dello status di cappellania, riservato ai cattolici. Si può parlare di caso italiano?

Lo status di cappellano, in Italia, è riservato ai sacerdoti cattolici. Generalmente, questi ultimi non hanno una formazione specifica. Negli USA, invece, devi aver fatto 4 corsi di 3 mesi di CPE, sotto supervisione costante. Il titolo di Cappellano clinico è per chi ha fatto quel tipo di percorso formativo. In Italia non c’è una formazione specifica obbligatoria per i cappellani cattolici. E tuttavia lo status di cappellano riconosciuto è riservato a loro.  Noi che invece quello status non possiamo averlo richiediamo comunque a tutti coloro che si preparino al ministero pastorale o diaconale questa formazione. Ma qualcosa sta cambiando e anche in ambito cattolico la necessità di una adeguata formazione in alcuni contesti si sta facendo spazio. Tempo fa il coordinatore responsabile della pastorale sanitaria della Città della salute di Torino mi ha chiesto di tenere un seminario di formazione a cappellani e suore in servizio presso gli ospedali. È stata un’esperienza bella e gratificante e un riconoscimento delle competenze maturate in tanti anni di servizio. A suo tempo pensavo che la chiesa cattolica avesse molti supervisori in CPE, invece, mi venne detto proprio da uno di loro che ce ne erano solo 2. Si tratta di Angelo Brusco e Arnaldo Pangrazzi(i cui libri sono anche nella bibliografia del nostro corso). Personalmente apprezzo molto il lavoro di questi colleghi cattolici (entrambi appartenenti all’ordine camilliano) e trovo paradossale che la formazione pastorale clinica non sia obbligatoria nella Chiesa che detiene in esclusiva il diritto di esercitare la cappellania in ambito ospedaliero o carcerario.

Qual è la differenza fra cura d’anime e pastorale clinica?

Se fai cura d’anime nella tua chiesa, prendi appuntamento oppure vieni chiamato, e sei accolto da chi ha bisogno. Fare pastorale clinica in un contesto estraneo, dove non sai cosa troverai dietro la porta, ti mette a confronto con realtà e persone molto diverse. Malattie varie, situazioni delicate, cancro, terminalità, situazioni complesse e drammatiche anche sul piano umano; a volte bisogna confrontarsi con la rabbia e l’ostilità, imparando ad accoglierle e a vincerle. Se impari l’ascolto e la cura d’anime in ospedale, puoi farla ovunque. Ecco perché chiese come le nostre, che non hanno cappellani (con l’eccezione dell’Ospedale evangelico di Napoli) ritengono che i corsi di CPE debbano essere obbligatori.

Perché Genova?

 

Il corso si tiene a Genova Voltri perché la struttura è adeguata. Quando questo ospedale che prima si chiamava San Carlo, è stato dato in gestione all’Ospedale evangelico internazionale di Genova, si trattava di superare le diffidenze iniziali di chi lo conosceva come un ospedale cattolico. Iniziare i corsi di CPE in quel contesto, con una pattuglia di cappellani tirocinanti evangelici, era impresa delicata e perfino alcuni nostri pastori ritenevano fosse prematuro. Ma la presidente, Barbara Oliveri Caviglia, fu lungimirante e accolse la mia proposta. Ben presto sono state superate le iniziali diffidenze e il servizio dei nostri cappellani tirocinanti è stato apprezzato. L’apporto dell’Otto per mille della chiesa valdese è stato poi determinante per riqualificare i servizi e le strutture di questo ospedale che aveva bisogno di ammodernamenti. Il personale ha visto molte trasformazioni e ha iniziato ad apprezzare che la struttura sia passata sotto una gestione protestante. Ha riconosciuto inoltre il valore aggiunto costituito dall’avere delle persone che potessero dedicare del tempo all’ascolto dei pazienti, notando come il loro umore migliorasse per il semplice fatto che qualcuno avesse il tempo di sedersi accanto a loro per accoglierne stati d’animo, rabbia, disperazione e speranze e per offrire vicinanza umana e spirituale.

Quali sono secondo lei i maggiori problemi nel settore sanitario, oggi, dal punto di vista dell’ascolto e della centralità del paziente/utente?

Da quando gli ospedali si sono trasformati in aziende, sono cambiati anche i tempi di lavoro degli operatori socio-sanitari, del personale medico e infermieristico. Ci sono ormai tempi contingentati, per cui si sono ridotte le possibilità di ascolto dei pazienti da parte degli operatori sanitari. Ci sono ottimi clinici che finiscono per diventare burocrati, o “primari-manager”, e non hanno più il tempo che a loro piacerebbe avere per visitare le persone, per stare con il paziente. C’è stata una trasformazione epocale. Alcuni di coloro che entrano ora nel settore sanitario probabilmente non colgono la portata di questo cambiamento, ma chi esercitava prima questa professione talvolta lo vive con sofferenza.

In che modo il servizio di cappellania può “venire in soccorso” quando manca il tempo della cura nei reparti?

La presenza di cappellani è un grandissimo aiuto, perché possono svolgere quel compito che molti medici e infermiere non hanno più il tempo materiale di svolgere. Anni fa, a un nostro tirocinante è stato chiesto di assistere una paziente durante un intervento chirurgico che prevedeva che il paziente restasse sveglio. In un altro caso, una persona con problemi psichiatrici, una volta dimessa in seguito a guarigione, ha inviato un elogio all’ospedale ringraziando per il cappellano tirocinante che ogni giorno si è seduto con lei e l’ha ascoltata.

Che tipo di valutazione e monitoraggio prevede questo percorso formativo?

Utilizziamo il cosiddetto “verbatim” e il metodo della “action-reflection“. Compi una azione, poi rifletti su essa, per poi farla la prossima volta con nuova consapevolezza.

Il verbatim consiste in una sorta di trascrizione anonima, sotto forma di linguaggio diretto e con il pieno rispetto della privacy delle persone coinvolte, nella quale si riproduce quanto accaduto durante una visita. Questa trascrizione viene fatta secondo un format preciso, sulla base della memoria. La visita viene rimessa in scena in un dialogo teatralizzato in cui il soggetto dell’azione rivede se stesso da fuori, perché è un altro che legge la sua parte. In questo modo, si osserva cosa è stato tralasciato, o altri dettagli, come un cambio di discorso o un mancato feedback su una questione importante emersa nella conversazione e che meritava di essere esplorata.

La situazione viene analizzata per imparare a gestire aspetti importanti della cura d’anime. Alcuni comportamenti di un tirocinante che, ad esempio, non coglie certi ganci nella comunicazione del paziente, collegati alla sua biografia, vengono approfonditi in supervisione. Possono essere nodi esistenziali rilevanti, ed evidenziarli rappresenta un prezioso apprendimento non solo come prassi pastorale, ma anche per la crescita della persona.

Le esperienze biografiche possono avere impatto nelle relazioni di aiuto. Possono esserci situazioni di transfert e controtransfert, o altre criticità che bisogna imparare a individuare. Come, ad esempio, quando si vede in una paziente la propria nonna, e allora si esce dal ruolo pastorale e ci si comporta da nipote, con una potenziale inversione dei ruoli riguardo alla cura.

Abbiamo anche una sorta di agenda per le sedute di supervisione individuale dei tirocinanti. Ciascuno decide di cosa vuole parlare nella seduta personale con il supervisore.  E poi quella seduta viene valutata dal tirocinante mediante un’apposita scheda. Tutto ciò che viene fatto durante il corso è sottoposto ad analisi costante.

 

Cosa ci può dire riguardo agli obiettivi del corso di formazione per la  pastorale clinica?

Nei primi giorni di esperienza in reparto, ogni tirocinante scrive un patto di apprendimento, con massimo 3 obiettivi professionali e 3 personali. Questi obiettivi vengono condivisi e ci si supporta e sostiene a vicenda. A fine corso, ogni tirocinante deve scrivere quali obiettivi ha raggiunto, su quali deve lavorare ancora e quali non ha nemmeno sfiorato. Inoltre, si scrive un paragrafo su ogni membro del gruppo e sui suoi obiettivi e uno sul supervisore. Insomma, è una autovalutazione e contemporaneamente una valutazione dell’esperienza comune.

C’è anche spazio per la meditazione e il confronto?

Sì. Ogni mattina si inizia con un culto dove si cerca di tematizzare alcuni aspetti del percorso. Talvolta si uniscono a noi membri del personale, in un momento che diventa comunitario.

Ogni venerdì, invece, si chiude in cerchio per una “Integrational Peer group session” nella quale, secondo precisi criteri di comunicazione, ogni membro del gruppo può dire ciò che gli sta a cuore, ciò che gli risulta difficile, ciò che sta sperimentando di importante, oppure fare rilievi critici a membri del gruppo o al supervisore, con l’intento di affrontare e superare situazioni conflittuali. Se nessuno prende la parola, è un’ora di silenzio… ma non mi è mai successo. È un momento prezioso in cui fare il punto sui progressi, sulle dinamiche di gruppo, su eventuali tensioni. Un momento importante quanto quello della supervisione individuale.

Da Nev-Notizie Evangeliche

 

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