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Buchi Neri: il rapporto sui centri di Permanenza per il Rimpatrio

Il primo rapporto curata dalla Cild, la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, sulla condizione dei CPR in Italia mette in evidenza un sistema con notevoli criticità e violazioni di diritti, ma su cui lo Stato sembra non intervenire

Il 15 ottobre scorso è stato presentato a Roma il rapporto Buchi Neri. La detenzione senza reato nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio curato dalla CILD - Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili. Il rapporto cerca di fare luce sui tanti punti critici del sistema dei dieci CPR presenti sul territorio italiano (Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago) partendo da ciò che accomuna tutte le persone che vi transitano, ovvero la condizione di detenzione amministrativa.

Questa particolare situazione differisce dalla detenzione che si verifica, ad esempio, nelle carceri in quanto le persone a cui è applicata non hanno commesso reati. L’ingresso nei CPR avviene quando un individuo si trova irregolarmente sul territorio italiano: i soggetti vengono quindi condotti nei Centri in attesa di essere rimpatriati, ma è proprio a questo livello che sorgono le principali criticità.

Innanzitutto, «i CPR non riescono a svolgere la loro funzione, visto che dal 1998 ad oggi (stando ai dati del Ministero dell’Interno) si riesce a rimpatriare solo il 50% delle persone che passano per i Centri», spiega l’avvocato Gennaro Santoro, uno dei curatori del rapporto. Sorge quindi spontaneamente un interrogativo: cosa accade al rimanente 50% delle persone? «Il trattenimento può avvenire solo in funzione del successivo rimpatrio», spiega Santoro, ma se non c’è rimpatrio siamo di fronte a una violazione della logica stessa dei Centri oltre che dei diritti delle persone coinvolte.

Nel rapporto della CILD è dedicato ampio spazio proprio al tema dei diritti. Partendo da quello alla salute, si nota che nei CPR la sanità è gestita da soggetti privati che troppo spesso non rispettano condizioni di assistenza basilari e non garantiscono un pieno supporto, soprattutto dal punto di vista psicologico e psichiatrico, agli ospiti. Ne è prova il fatto che nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono presenti dei «locali di isolamento, in realtà non previsti dall’ordinamento giuridico. I suicidi o le morti avvengono proprio qui, dove si collocano persone con problemi psichiatrici senza assistenza da parte di personale apposito. Consideriamo che su una media di detenzione di circa 400 persone al giorno, negli ultimi 2 anni ci sono stati 6 morti, per la maggior parte suicidi di giovani tra i 20 e i 30 anni», racconta Santoro. La pandemia ha poi ulteriormente peggiorato le situazioni più problematiche: durante le fasi più acute, mentre il Paese seguiva le regole dei lockdown, nei CPR molto spesso queste misure non venivano rispettate, e ancora oggi le persone trattenute non vengono vaccinate.

Inoltre, la situazione pandemica ha sollevato nuovi interrogativi: «in teoria bisognerebbe essere trattenuti per il tempo necessario ad essere rimpatriati: se i voli durante le fasi più gravi della pandemia mancavano, a che titolo le persone sono state trattenute? Queste persone, con pieno diritto, potrebbero chiedere anche un risarcimento del danno».

Altra grande problematica è quella degli spazi in cui vivono le persone detenute: «Basti considerare che in 24 metri quadrati a Torino vivono 6 o 7 persone, ben al di sotto dei 3 metri quadrati che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha previsto come metratura minima in cui una persona può vivere in maniera dignitosa. In questo caso parliamo quindi di una condizione strutturale disumana e degradante, prossima alla tortura». Intanto è proprio di oggi 21 ottobre la notizia di addirittura 26 tentati suicidi in un mese nel solo CPR torinese.

Lo Stato potrebbe giocare un ruolo importante nel contrastare queste importanti criticità del sistema, ma al momento sembra prevalere l’inerzia. La presenza di osservatori esterni come giornali e associazioni potrebbe costituire una spinta al rispetto dei diritti delle persone trattenute, «così come ci sarebbe bisogno di una magistratura specializzata perché il trattenuto, nel momento in cui lamenta violazioni dei suoi diritti, possa rivolgersi a un magistrato specializzato - continua Gennaro Santoro - Noi crediamo che questi luoghi vadano superati perché inutili e carichi di sofferenza. Se anche non vengono superati, chiediamo che almeno si rispetti lo stato di diritto: la Costituzione deve essere rispettata anche in questi luoghi».

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