Corridoi umanitari, nuovo accordo per portare 500 persone in sicurezza dalla Libia
18 giugno 2021
Mercoledì l'incontro, con l'annuncio da parte del Ministro dell'Interno del protocollo siglato con la Federazione delle chiese evangeliche, Tavola Valdese e S.Egidio, per 500 persone dalla Libia
«E’ stato firmato il protocollo per portare dalla Libia 500 persone». Lo ha detto mercoledì il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese parlando dei corridoi umanitari in un evento a Palazzo Borromeo. L’accordo prevede il coinvolgimento dell’Unhcr e sarà gestito anche con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, la Tavola valdese e S.Egidio.
Il ministro, come si legge in questo comunicato pubblicato sul sito del dicastero, ha definito i corridoi umanitari «un sistema importante da considerare», rispetto ad «un problema strutturale, molto ampio, che necessita anche di un buon governo delle varie situazioni». In questo quadro il ministro Lamorgese ha ricordato che il Viminale «ha stipulato un accordo con la Comunità di Sant’Egidio, le Chiese evangeliche, la Chiesa Valdese e la Caritas per rinnovare impegni già presi negli anni precedenti e che stiamo portando avanti anche dalla Libia. Gli organismi che hanno lanciato il progetto – ha sottolineato – hanno permesso di portare in Italia e in altri Paesi europei in piena legalità e sicurezza 3.500 persone».
All’incontro ha partecipato, per la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Paolo Naso, coordinatore del programma migranti e rifugiati, Mediterranean Hope.
Qui di seguito il testo integrale del suo intervento alla conferenza di ieri:
«Nel 2021 la Giornata mondiale del rifugiato cade mentre tutti aspettiamo la fine di una dolorosa emergenza pandemica che ha segnato nel profondo le nostre vite e i nostri stili di vita. Una pandemia che ci ha costretto a limitare i nostri viaggi, gli spostamenti, le relazioni sociali.
C’è però una comunità che ha continuato a muoversi ed a mettersi in cammino, molto spesso senza conoscere la propria meta ma avendo ben chiaro che, per sopravvivere, aveva solo una possibilità: scappare. Sono i richiedenti asilo per i quali il COVID19 è stata solo un’altra piaga che si aggiungeva sul loro corpo martoriato da guerre torture, ricatti violenze. E una grande comunità che, nel mondo, conta quasi 80 milioni di persone. Come noto, oltre l’80 % – il 40% dei quali minori – proviene da dieci paesi soltanto e risiedono in assoluta maggioranza in paesi del Sud globale: Libano, Giordania, Pakistan, Uganda ai quali si aggiunge la Turchia che però ha negoziato con l’Unione europea il discutibile ruolo di gatekeeper dei flussi migratori. L’Europa accoglie circa il 6,5 % del totale dei rifugiati nel mondo.
Sono uomini e donne che abbiamo imparato a conoscere a Lampedusa, a Ventimiglia, in Bosnia, a Lesbos, a Ceuta e Melilla. “Clandestini” è il termine con cui vengono spesso apostrofati.
Ma non si chiamano “clandestini”. Si chiamano Jamal, come il ragazzo egiziano di sedici anni, arrivato a Lampedusa solo tre giorni fa con ustioni di secondo grado su tutto il corpo che gli impedivano di indossare anche una semplice maglietta, ustioni che a causa del sale marino bruciavano come il fuoco.
Si chiamano Yousuf, come il bambino di sei mesi morto l’11 novembre scorso, in braccia alla madre nel corso dell’ennesimo naufragio di un barcone al largo di Lampedusa.
Ogni profugo ha un nome e una storia e ogni rifugiato è per noi è un essere umano che – come recita l’articolo 10 della Costituzione italiana – ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. In questa sede e in questo contesto, però, questi uomini e queste donne sono anche il “prossimo”, il viandante ferito che incontriamo sulla strada che da Gerusalemme scende verso Gerico.
In questo senso oggi ci portano qui ragioni non solo umanitarie e costituzionali ma anche etiche e teologiche.
Ed è questo intreccio di ragioni che, ormai sei anni fa, ha motivato una scelta ecumenica che ha prodotto un esperimento pilota in Europa: i corridoi umanitari. Cattolici e protestanti, insieme, hanno avviato una buona pratica che, ad oggi, resta uno degli strumenti più funzionali del cosiddetto Migration Management.
In Italia, Francia, Belgio, Germania ed altrove sono state coalizioni ecumeniche a intuire la necessità di una via pratica, legale e sostenibile per garantire vie sicure e legali di accesso all’asilo e alla protezione internazionale.
Questa intuizione ha poi trovato un positivo e fattivo riscontro nel Governo italiano. Nei tavoli tecnici prima e in quello istituzionale che hanno prodotto i vari protocolli abbiamo dato evidenza di che cosa, nel pieno rispetto della laicità dello Stato, si debba intende per sussidiarietà tra l’azione delle istituzioni e quella della società civile e quindi anche delle comunità di fede. Ognuno ha fatto la sua parte e colgo l’occasione di potermi rivolgere direttamente alla Signora Ministro per ringraziare lei e il Ministero dell’Interno per la particolare determinazione e cura con cui hanno gestito ed accompagnato i corridoi umanitari che per altro speriamo si possano allargare e moltiplicare.
I corridoi umanitari vengono spesso citati per il meccanismo di ingresso in Italia, costruito sulla base legale dell’articolo 25 del Regolamento del Trattato di Schengen sui visti umanitari. Ma c’è un altro tratto di questa esperienza che ci preme richiamare: l’accoglienza, che si propone come un vero percorso di integrazione e che quindi prevede l’apprendimento della lingua, la ricerca di lavoro, l’istruzione nel sistema scolastico italiano… L’inserimento in un tessuto sociale che accompagna i beneficiari fino alla loro autonomia. Il bilancio sociale dei corridoi umanitari deve considerare anche questa voce, largamente in attivo, che mostra il volto di un’Italia che si prende cura, si fa carico, accoglie, educa. E’ un’Italia che resta in ombra rispetto a quella vociante e spesso scomposta che alimenta spinte xenofobe se non razziste, ma è un’Italia solida e diffusa. E’ una preziosa risorsa sociale che mostra di sapersi attivare tanto per i diritti dei rifugiati che per quelli degli italiani più vulnerabili, soli, svantaggiati. E’ l’ Italia di quella solidarietà che non ha confini di genere, di etnia, di condizione fisica, di religione. E’ il Paese che ha mostrato di sapersi fare carico di vite disperate e spezzate che sono risorte grazie a una cura, una scuola, un lavoro, una casa. E’ l’Italia che assiste al miracolo di Lazzaro che si rianima e si riprende la vita.
Oggi vi è un consenso ampio e politicamente molto trasversale ai corridoi umanitari e non possiamo che rallegrarcene. Ma allora non capiamo perché questa riconosciuta best practice non diventi una politica messa a sistema dall’Unione Europea. Come chiese evangeliche, nelle scorse settimane abbiamo scritto ai nostri partners europei, ovviamente includendo le grandi comunità protestanti di Germania, Svezia, Danimarca e così via, intitolandola idealmente “L’Europa muore a Lampedusa”. Muore attorno a questo luogo simbolo delle migrazioni forzate che fa del suo meglio per accogliere e smistare migliaia di richiedenti asilo che non cercano l’Italia ma l’Europa. E’ alle porte dell’Europa che bussano. Lo fanno appellandosi, più o meno inconsapevolmente, alla sua storia e ai suoi valori nati e cresciuti negli anni della guerra, in reazione all’orrore della Shoah e nella coscienza di un principio che proprio in quel contesto si stava profilando giuridicamente: il diritto umanitario, poi sintetizzato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Alle chiese protestanti europee abbiamo chiesto l’impegno ad appellarsi ai loro governi perché assumano che Lampedusa è anche il confine dell’Europa ed è anche su quel confine che si misura la moralità politica dell’Unione e la sua capacità di garantire una governance dei processi migratori.
Non esiste una bacchetta magica che risolve i problemi delle migrazioni globali ma ci sono degli strumenti che vanno coordinati e messi a sistema in un dispositivo coerente: i corridoi umanitari, i soccorsi in mare – quelli doverosamente attivati dagli Stati come quelli delle ONG – le relocation, l’isolamento dei paesi che violano i diritti umani e per questo producono “rifugiati”, la cooperazione allo sviluppo dei paesi più stabili che potrebbero offrire alternative sostenibili all’emigrazione.
Perché è così difficile costruire un consenso europeo su questa piattaforma? Forse perché l’Europa politica ha smarrito la sua identità. Per usare l’espressione dell’ex presidente Jacques Delors, la sua “anima”.
E’ questa la domanda con cui mi accingo a chiudere. Dov’è l’anima, la moralità nella politica migratoria dell’Europa? Dov’è la sua dimensione etica? Come credenti non possiamo rassegnarci a un’idea della politica che prescinda dall’etica, da un nucleo di valori profondi e largamente condivisi. E tra questi c’è la tutela di quanti scappano da fame, guerre, violenze e persecuzioni.
Diceva Martin Luther King:
La paura si chiede: E’ sicuro?
La tattica si chiede, è politico?
La vanità si chiede, è popolare?
Ma la coscienza – solo la coscienza – si chiede, è giusto?
Ed è in questo spirito, quello della coscienza che spinge a fare ciò che è giusto, che vogliamo celebrare questa giornata».