PNRR: verde ma non troppo
12 maggio 2021
La resilienza indica il ritorno a una condizione perduta, ma per l’ecologia si dovrebbe piuttosto cambiare rotta verso nuovi modi di pensare il futuro
Il 30 aprile il governo ha inviato alla Commissione europea il «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr), che espone come l’Italia intende spendere le risorse provenienti dal Next Generation Eu, il fondo di rilancio da 750 miliardi di euro. Da parte dell’Unione Europea, una svolta rispetto all’approccio “ognuno per sé e austerità per tutti” con cui era stata affrontata la crisi del 2008. Il Pnrr mobilita, da qui al 2026, 191,5 miliardi, suddivisi in sei “missioni”: 1) digitalizzazione e innovazione); 2) transizione ecologica; 3) mobilità sostenibile; 4) istruzione e ricerca; 5) inclusione e sociale; 6) salute (15,63). Le “missioni” 2 e 3, rispettivamente il 31 e il 13 per cento del Piano, vorrebbero segnare un inizio di “rivoluzione verde”. Ma sono state proprio le associazioni ambientaliste a esprimere critiche al Pnrr: vediamone alcune.
- Si indica un obiettivo di riduzione nel 2030 delle emissioni di gas serra del 51%, mentre la legge europea sul clima prevede il 55% (già ritenuto da molti poco ambizioso).
- Non si prevede un’eliminazione, neanche graduale, dei sussidi ambientalmente dannosi (quelli alle energie fossili) che ammontano, secondo Legambiente, a 35,7 miliardi di euro all’anno. In generale non sembra che i criteri ambientali possano entrare nella progettata riforma del fisco.
- Manca una strategia di investimento sulle energie rinnovabili. Si punta molto sulla produzione di idrogeno, una tecnologia che per molti osservatori non è ancora matura. Il Pnrr sembra essere scritto pensando più che altro alle strategie di investimento di aziende come Eni o Snam.
- Le risorse classificate come “economia circolare” sono unicamente indirizzate al trattamento dei rifiuti. Ma l’economia circolare include anche il design, la realizzazione del prodotto, la ricerca di nuovi materiali a impatto zero e completamente riciclabili: cercare di produrre meno rifiuti più che di recuperarli bene, e questo non c’è.
- Le risorse stanziate per i trasporti sono insufficienti e fortemente sbilanciate a favore dell’Alta Velocità ferroviaria (su 24,77 miliardi previsti per la rete, solo 3,34 finanzieranno le linee locali), in un paese dove ci sono 7.500 chilometri di binari inattivi (ne sa qualcosa la val Pellice). Una scelta che non rompe con la linea degli ultimi decenni, basata sulla logica del trickle-down ora contestata persino da Biden: grandi risorse ai ricchi, le briciole agli altri. Poco anche per i trasporti urbani, e in generale per la mobilità elettrica (a cui si dedica meno dell’1% contro il 25% della Germania).
- Nel complesso le risorse destinate all’efficienza energetica sono pari a 22,26 mld, 20 dei quali destinati a interventi negli edifici tramite il superbonus 110%. Poche risorse per gli interventi di efficienza energetica nell’industria. Insufficienti anche i fondi stanziati per la messa in sicurezza delle scuole.
Molti hanno lamentato la carenza di confronto e partecipazione pubblica nella scrittura del Pnrr (o meglio nella sua riscrittura, visto il tempo perso all’inizio dell’anno nella crisi di governo). Confronto e partecipazione che saranno essenziali nelle prossime fasi, dopo che Bruxelles avrà approvato il Pnrr. Come sostiene Rossella Muroni, vicepresidente della Commissione Ambiente della Camera: «ci sarà bisogno di riforme, di leggi e decreti di attuazione per dare gambe al Recovery italiano: dalle semplificazioni di autorizzazioni e procedure al rafforzamento dei controlli ambientali, da una Pubblica Amministrazione rigenerata con nuove competenze e risorse umane a una nuova e più ampia legge sul dibattito pubblico». Sarà essenziale la vigilanza dal basso perché non rientrino dalla finestra progetti inutili o dannosi che sono rimasti fuori dal Pnrr ma hanno forti lobby a sostegno, come il progetto Eni di cattura e stoccaggio della CO2 nei fondali al largo di Ravenna o l’eterno Ponte sullo Stretto. Non mancano i comitati territoriali, le competenze diffuse, l’attenzione nelle nuove generazioni (pensiamo a realtà come Extinction Rebellion o i Fridays for Future). Quello che manca drammaticamente, e non da ieri, è la capacità di incidere: le istanze ambientaliste da noi non hanno una rappresentanza politica degna di questo nome. Il confronto con altri Paesi (a partire dalla Germania) è impietoso.
Un’ultima osservazione sull’abusato termine resilienza. In psicologia significa «la capacità di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità». Ma in ecologia la resilienza è definita come «la velocità con cui una comunità (o un sistema) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato». Tornare allo stato iniziale? Il nostro modo di produrre e di consumare, più che di resilienza, ha bisogno di una profonda riforma.