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Fine pena mai?

Fra ergastolo ostativo e nuove idee di giustizia

Come è consuetudine nel nostro Paese i temi di dibattito sono spesso avviati e alimentati da eclatanti fatti di cronaca che accendono l’attenzione di mezzi di comunicazione e politica su uno specifico aspetto del nostro vivere sociale, per poi ripiombare nel dimenticatoio tendenzialmente in fretta, fino a nuovo giro.

Non fa eccezione l’ergastolo, tornato alla ribalta dopo la morte di Raffaele Cutolo, boss della camorra che ha trascorso in carcere 55 anni della sua vita. Il riferimento in particolare è all’ergastolo definito ostativo, che non prevede cioè alcun beneficio: lavoro esterno, permessi, misure alternative, l’attuazione insomma di un percorso rieducativo. Introdotto nel 1991 in un contesto di legislazione d’emergenza dettato dalla guerra in corso contro la mafia l’ergastolo ostativo viene comminato a coloro che non intendono collaborare con la giustizia. Un esercito di circa 1250 persone, per lo più mafiosi e terroristi di ultima generazione, mai scesi a patti con lo Stato.

L’ostativo è stato dichiarato illegittimo nel 2019 prima dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo e poi dalla Corte Costituzionale, che lo ha definito contrario all’articolo 27 della Costituzione che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Ne parliamo con il pastore Francesco Sciotto che di carcere si occupa da anni.

– Dunque il dibattito sul “fine pena mai” trova i titoli dei giornali solo di fronte alla morte di un celebre boss?

«In parte. Vero che di ergastolo non si parla quasi mai, mentre mi pare che negli ultimi mesi, purtroppo a causa del Covid, il tema più generale delle carceri sia tornato d’attualità. Ciò perché il virus ha mostrato i luoghi vulnerabili delle nostre società, e la prigione è uno di questi, data la grande promiscuità interna. Eppure come soluzione si propone di costruire nuove strutture. Appare quindi come lo Stato italiano non sia in grado di gestire la questione delle lunghe pene se non con pugno duro e chiusura. Con le sentenze citate la situazione è leggermente migliorata, ma non molto è cambiato. Le carceri sono sovraffollate di persone con detenzioni molto brevi, legate a piccolo spaccio e reati contro il patrimonio dettati dall’indigenza. Per queste categorie il carcere sarà soltanto un elemento peggiorativo che va a minare il futuro reinserimento sociale».

– Ha ancora senso oggi una legislazione nata per rispondere a una situazione emergenziale?

«L’ergastolo ostativo è figlio della stagione della grande lotta alla mafia. Ora dobbiamo andare oltre. La questione, da cristiani che leggono Isaia con il Signore che dice “io non contenderò in eterno” (57, 16), è se si possa considerare una pena iper-punitiva a vita come una sanzione giusta. Il problema non è sapere che un qualche boss di peso era un sanguinario – lo sappiamo –: il problema è lo Stato che deve decidere se deve essere inumano o meno. La differenza fra me Stato democratico e un boss sanguinario sta nel fatto che io-Stato non mi vendico. Dobbiamo trovare soluzioni in cui le esigenze di sicurezza siano seguite ma non ci sia accanimento nei confronti delle persone. La pervasività mafiosa si concretizza oggi soprattutto attraverso reati finanziari con complicità nella politica e nella pubblica amministrazione, per cui a mio avviso l’attenzione del legislatore dovrebbe concentrarsi su quell’aspetto in particolare».

– Le chiese evangeliche da anni ragionano sul tema e nel 2017 anche la “Giornata di studio Giovanni Miegge”, che precede il Sinodo valdese e metodista, è stata dedicata alla «Prospettiva cristiana della pena». Quello stesso Sinodo alcuni giorni dopo bocciò però un ordine del giorno che invitava le chiese a considerare la possibilità di un’altra legislazione sull’ergastolo. Il tema è divisivo dunque?

«Quel dibattito sinodale mostrò che forse i tempi non erano maturi, ma la realtà è che anche quel momento fu influenzato da posizioni ideologiche che sono figlie di una stagione vissuta fino ad alcuni decenni fa; solo che i decenni nelle fasi storiche sono pochissimo, nella vita di una persona sono tantissimo. È comunque forte l’impegno delle nostre chiese in materia: in varie regioni, con vari progetti, sono operative realtà che tentano di offrire percorsi alternativi alla mera chiusura carceraria».

– Vari fra questi progetti pongono al centro dell’operato l’idea della cosiddetta giustizia riparativa. Ci aiuta a definirla, sapendo che qualsiasi percorso di riparazione/riconciliazione (come è accaduto anche nel lavoro delle Commissioni per la verità e la riconciliazione in Sudafrica e in Irlanda, come illustra bene anche M. Cannito nel suo testo sulla trasformazione dei conflitti1 ) può cominciare solo se da parte dei rei c’è ammissione di colpa per quanto compiuto ai danni delle vittime?

«Si tratta di un paradigma di pena che mette di nuovo al centro del ragionamento la vittima, non la usa per giustificare la violenza dello Stato o per strumentalizzare il suo dolore, ma essa viene accompagnata, perché è lei a subire la pena peggiore. L’idea di fondo è che compiendo un atto criminale un soggetto ha spezzato un legame; la pena allora non è un risarcimento allo Stato del tabù rotto, ma un percorso che tende a ritessere in qualche modo il legame spezzato. Prevede fra l’altro contatti del reo con la propria vittima, percorsi di immedesimazione negli atti compiuti, vari progetti educativi articolati. Questo il tema di fondo, che riprende il concetto della nostra Costituzione secondo cui la pena è rieducazione. Il trattamento penitenziario deve avere valore di inclusione sociale, non di esclusione. L’importante è non perdere d’occhio che è sempre possibile avere un’altra penalità, alternativa, come si fa da decenni da altre parti».

– Siamo un Paese giustizialista? C’è un’influenza religiosa in questa idea di colpa e espiazione?

«C’è un’influenza cristiana, certamente. Il termine stesso “penitenziario” implica un luogo dove espiare delle colpe, un luogo che nasce quale alternativa alle pene corporali normalmente in vigore nel passato. Il nostro è un paese giustizialista ma non solo per le sue radici culturali. Lo è perché è impoverito, arrabbiato, e questa rabbia va rielaborata. Se subisco un torto provo sentimenti di violenza che non vanno sottovalutati; il problema è capire che cosa fare di quel sentimento, come trasformarlo. Devo anche vedere attorno a me uno Stato che sa rispondere al torto subìto da un suo cittadino. Perché se mi sento solo la mia rabbia trova sfogo dove capita, sul vicino di casa, sul diverso, sul più debole».

1. M. Cannito Hjort, La trasformazione dei conflitti. Un percorso formativo, Claudiana, 2017.

 

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