Di Segni: «Memoria e coerenza»
27 gennaio 2021
La presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane fa il bilancio di 20 anni della giornata che ricorda la Shoah
«Il Giorno della Memoria rischia di essere un rituale? I rituali vanno anche bene, quando non ci saranno più sarà molto peggio, ma la vera questione è quella della coerenza, non si può venire alla cerimonia sulla Shoah e poi non affrontare il pregiudizio dell'antigiudaismo e del complottismo».
Noemi Di Segni, presidente dell'Ucei (l'Unione delle comunità ebraiche italiane) fa il bilancio (senza sconti) di venti anni del Giorno della Memoria in Italia, una ricorrenza che ricorda la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz (27 gennaio 1945) e che è l'occasione per riflettere sulla tragedia dello sterminio degli ebrei.
Presidente, un bilancio positivo o negativo?
«Come è ovvio ci sono punti che funzionano e ci sono criticità. Vent'anni è l'età di una generazione. Educare una generazione è come educare un figlio».
Cosa funziona?
«Ci sono dei contesti nelle istituzioni di grande sensibilità, è stato fatto un grande investimento sulla progettualità nelle scuole, nelle università, sull'organizzazione di viaggi ed eventi. Sul tema della Shoah, in Italia c'è un livello altissimo di attenzione. Si tocca con mano una grande sensibilità, anche commovente. Dietro a questo ci sono persone colte e attente, con un alto senso di responsabilità. E' commovente vedere come interagiscono i ragazzi durante le iniziative».
E cosa non va?
«Esiste un'Italia che non si è assunta ancora le responsabilità di quello che è accaduto. Sulla Shoah e Auschwitz c'è grande attenzione, ma quello che riscontro è che sul fronte legislativo ci sono ancora dei vuoti nella cancellazione totale della pagina delle leggi razziali del 1938, che pure sono state formalmente abrogate. Poi, vedo che il reato di apologia del fascismo oggi è ancorato alla dimostrazione di una volontà soggettiva di ricostruire il partito fascista e così assistiamo di continuo a manifestazioni con il saluto col braccio teso, calendari di Mussolini e via dicendo».
Cosa c'è dietro tutto questo?
«Manca una sufficiente presa di coscienza di cosa cosa fu il regime fascista, quali furono le sue responsabilità. Non abbiamo ancora fatto del tutto i conti con il passato. Dobbiamo capire il subdolo modo di presenziare del fascismo nella vita italiana, ci si appiattisce troppo sulle responsabilità solo dei nazisti. Se non c'è questo ritornerà tutto. Dobbiamo dire chiaramente che non finisce tutto il 27 gennaio, va fatto un lavoro che va oltre Auschwitz».
Un lavoro da fare soprattutto con i giovani
«Sì, certo. Le nuove generazioni non hanno sufficiente contezza di cosa siano stati il fascismo, il nazismo, la Shoah. D'altronde, i programmi di studio e i libri di testo spesso dipingono il popolo ebraico uscito dall'Egitto e poi (se ci si arriva) si passa direttamente ad Auschwitz, in mezzo c'è il nulla. L'obiettivo non è solo raccontare la Shoah ma far conoscere la cultura ebraica, il popolo ebraico e Israele. Così si sradicano i pregiudizi. Crescendo insieme e convivendo tra religioni diverse forse riusciremo a ottenere una diffusa apertura mentale e una disponibilità culturale. Questa è la sfida che dobbiamo affrontare, un programma di formazione in più ambiti: famiglia, scuola, istituzioni».
Lei associa il Giorno della Memoria alla coerenza
«Assistiamo a un'escalation di antisemitismo, odio verso Israele e non accettazione dello Stato di Israele con attacchi che poi si ribaltano contro gli ebrei. Bisogna affrontare il pregiudizio di base, l'anti giudaismo, il complottismo. Coerenza è tutto un insieme, visto che poi in vari contesti internazionali si vota su risoluzioni allucinanti che negano l'esistenza di Israele».