“La grammatica della cura”. La pastora Lidia Maggi ospite di Radio3
23 dicembre 2020
La pastora battista in dialogo con Marino Sinibaldi, su Rai Radio3, pochi giorni fa, all'interno della trasmissione dedicata a "Conversazioni intorno alla pandemia"
“La grammatica della cura”, come ci ha cambiati la pandemia, il significato nuovo che hanno assunto le nostre case. Ne ha parlato Lidia Maggi, pastora battista, biblista e teologa, ospite di una puntata della trasmissione radiofonica di Radio Rai 3 “La cura”, in un dialogo, pochi giorni fa, con Marino Sinibaldi, direttore di Radio3. Non è la prima esponente evangelica ospite di questa rassegna. Un’altra studiosa, un’altra donna protestante, la storica Bruna Peyrot, è stata infatti protagonista dello stesso programma lo scorso agosto, nel primo ciclo del percorso di Radio 3 fatto di “conversazioni intorno alla pandemia”.
Al centro della riflessione, il senso della “casa”, intesa come luogo fisico e non solo. Abbiamo voluto anche noi, sulla scorta di questo dialogo radiofonico, approfondire questo tema insieme alla pastora.
Lei ha detto che vi è una disparità di genere nella casa. Cambierà qualcosa, in questo senso, dopo la crisi?
«La crisi ci ha permesso di vedere un problema strutturale: è nella casa che la disparità di genere si amplifica. Questi mesi hanno accelerato una disparità presente, con le scuole chiuse, lo smartworking e il “mito” della donna efficiente, multitasking: una rappresentazione che è una trappola. Ma può essere l’occasione di rimettere in discussione il modello esistente».
Ha raccontato la casa come una metafora della vita, della sua complessità, dei vari spazi. Ma c’è spazio per la complessità, nei media, nella velocità dei social, nel mondo post moderno?
«Esiste se i soggetti che sono responsabili della comunicazione la mettono al centro. I soggetti non sono solo i giornalisti ma anche chi ascolta, chi legge. Là dove ci saranno lettori che si ribellano alla banalizzazione dell’informazione, questo stimolerà sempre di più chi fa informazione. E ora che passiamo più tempo sui media, abbiamo l’occasione di approfondire, di andare oltre le semplificazioni, di ricercare la complessità».
«La Bibbia nasce a Babilonia», ha ricordato. Davvero crede che dalla crisi, dalle mancanze, possano sorgere grandi opportunità?
«Credo davvero sia così, la crisi è l’occasione per smettere di andare in automatico. Lo penso perchè la storia che ho ereditato me lo racconta, la storia antropologica e la mia esperienza personale me lo raccontano. Anche il parto avviene attraverso le doglie. La crisi può essere l’opportunità di trasformare la realtà, perchè ci interroga: non c’è cambiamento senza le domande. Ovviamente essa comporta anche dei rischi, se non accompagnata da una spinta vitale può indurre a una resa, all’immobilità dello sguardo. E’ come si sta nella crisi che fa la differenza. La sapienza biblica in questo quadro può aiutare – e lo dimostra l’attenzione del mondo laico verso questi strumenti, dimostrata anche da una trasmissione come quella di Radio3, che mi ha commossa – , ci fa percepire la crisi come possibilità e vedere nascere il nuovo, ci serve per cambiare postura».
Ha esortato a «stare nel disagio». Cesare Pavese scrisse che «Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola». Come si attraversa il disagio della malattia, della paura, della morte?
«Sicuramente non negandolo. Non pensando che la malattia e il lutto siano un tempo sospeso. Li pensiamo come intermezzo, mentre forse questo è un limite, perché anche quella è vita. Leggo che in queste ore molti augurano di “cancellare” il 2020. Ma non si può negare o cancellare un anno del genere, bisogna elaborarlo. Dobbiamo trovare riti, linguaggi, spazi narrativi per rivisitare questo anno. Tutto ciò che è rimosso prima o poi ritorna. Così come da una malattia non torniamo uguali a quelli che eravamo prima, così questo anno ci ha segnati. Volerlo scacciare senza una seria analisi è un’ingenuità».
In un’altra sua intervista, su Famiglia cristiana, riflettendo sul significato della casa, disse che essa «non è un luogo da idealizzare». Non è un rifugio nemmeno la famiglia, ma può essere anzi uno spazio di negazione di diritti, per chi subisce violenze, per chi non ha le risorse materiali o simboliche per scegliere dove vivere. Perchè celebrarla, allora?
«Dobbiamo fare i conti con la famiglia perché è li che impariamo la grammatica delle relazioni che ci permettono di stare al mondo. Occorre vigilare su quei linguaggi sgrammaticati che ci mettono nel mondo senza aver acquisito una sapienza. Fuori da metafora, ogni tipo di relazione affettiva, d’amore, di cura e di intimità è uno spazio dove impariamo la fiducia e l’alterità. Tutte le volte che all’interno della famiglia c’è un malessere non si ripercuote solo sul presente ma sul nostro sguardo più ampio verso la realtà. Per questo è molto importante vigilare: questo è il ruolo delle chiese.
La fede cristiana non è familista. Anzi, in Gesù c’è il rifiuto del patriarcale, una critica sociale forte, una critica feroce alla famiglia come spazio di potere. Il celibato di Cristo va in questa direzione. Solo Dio è padre. Levare potere agli umani e nello specifico ai maschi. E su questo, Gesù, che era espressione del genere maschile, ha molto lavorato».
Da domani tutti torneremo, a causa del lockdown, a stare in casa, per chi ce l’ha, almeno. Ha un augurio, un messaggio o anche solo un consiglio da dare?
«Non è semplice augurare qualcosa però forse imparare a cambiare sguardo sulla propria storia può essere già una possibilità. Non rimanere fermi ma trovare la forza per rimettersi in cammino verso il nuovo che viene. Ricomincia, in maniera ostinata, in maniera differente, ma ricomincia».