L'onda lunga della pandemia
15 dicembre 2020
La crisi economica allarga le sofferenze di molti pezzi di società, e sorge anche un “gap tecnologico” fra le famiglie. Gli interventi da parte della Diaconia valdese nei «Community center»
I numeri della pandemia sono impressionanti. Non solo per la drammatica contabilità di contagiati e morti. L’emergenza sanitaria, con le conseguenti chiusure di molte attività commerciali e una generale contrazione produttiva, sta trascinando nella povertà fasce sempre più ampie di popolazione. Lo studio dell’istituto di ricerca socio-economica Censis presentato a fine novembre fotografa questo aggravamento, che rischia di rendere complicatissimi i prossimi anni: 7,6 milioni di famiglie hanno subito un severo peggioramento del tenore di vita, che significa circa 23,2 milioni di persone alle prese con redditi decurtati o perduti. 5 milioni di italiani hanno notevoli difficoltà nell’espletamento dei pasti principali a causa di sopraggiunte difficoltà economiche. Le interminabili code per il ritiro di pacchi alimentari nelle nostre città sono lì a testimoniare plasticamente meglio di ogni cifra la terribile situazione.
Anche la Diaconia valdese, che ha nei Community center le sue antenne sui territori, avamposto in cui intercettare le necessità di chi perde tutele o non le ha nemmeno mai avute, ha percepito chiaramente il mutare delle utenze nel corso del 2020. «I Community center, alcuni gestiti insieme all'ong Oxfam, sono sportelli che nascono proprio con lo scopo di aiutare le persone che altrimenti faticherebbero a trovare interlocutori con cui confrontarsi per la soluzione di tutta una serie di problematiche – racconta Gianluca Barbanotti, segretario esecutivo della Diaconia valdese –. Sono spazi di accompagnamento e supporto nei confronti di chi non ha strumenti per gestire in autonomia alcune questioni».
Un servizio territoriale nato e pensato per sostenere, orientare e rilevare i bisogni di stranieri e italiani, fornendo servizi integrati e ascolto attivo delle necessità. Attualmente ne sono attivi 7 in tutta Italia e, proprio per la loro caratteristica di rivolgersi a situazioni di marginalità, a usufruirne in questi anni sono stati soprattutto cittadini stranieri, gli esclusi fra gli esclusi, privi spesso di ogni appiglio sanitario e giuridico, fra tutti la mancanza di possibilità di iscrizione anagrafica come sancito dai decreti sicurezza voluti dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Nell’ultimo anno però molte cose sono cambiate. «Intanto i numeri degli accessi totali sono aumentati di circa un terzo (a esempio, da agosto a novembre 2019, erano 1319 i casi presi in carico, che nello stesso periodo del 2020 aumentano a 2163), e poi la percentuale di chi per la prima volta si rivolge ai nostri sportelli è addirittura triplicata – spiega Simone Alterisio che dei Community center è il referente –. Se da un lato ciò è dovuto alla riconoscibilità delle nostre attività acquisita nel tempo, è indubbio che la situazione sociale risulta decisiva. Al momento dell’apertura dei primi centri negli anni 2017 e 2018 l’utenza era composta pressoché soltanto da stranieri, per cui lo sportello fungeva anche semplicemente da punto informativo sul funzionamento del sistema di protezione internazionale e di accoglienza. I servizi si sono poi ampliati nel tempo e diversificati in base alle necessità emerse nei vari territori, con prese in carico più puntuali e profonde che comprendono l’orientamento legale per il rinnovo documenti vari cui si sono affiancati interventi di inclusione sociale e lavorativa».
Inoltre sono aumentate le richieste da parte di cittadini italiani, un tempo rare, proprio per la tipologia di servizio offerto. «Le necessità sono in questo caso relative alla gestione delle richieste dei vari bonus, dei sussidi e degli aiuti statali – commenta Barbanotti –. Un’utenza nuova per le nostre proposte, per noi che non offriamo servizi diretti quali la consegna di pacchi alimentari o simili. Già da metà marzo i primi disoccupati sono stati quelli con i posti meno qualificati. Si è sentito subito l’impatto delle chiusure in tali figure meno qualificate e più precarie».
Altro aspetto emerso è quello del gap tecnologico delle nostre famiglie: «Abbiamo notato come fosse indispensabile mettere a disposizione degli studenti la strumentazione per la didattica a distanza, connessione, dispositivi elettronici e computer, perché mancavano molte cose, e nei ragazzi con qualche problema di lingua questi non possono che acuirsi. Quindi è chiaro che in questi mesi la nostra attenzione si è spostata dalla ricerca del lavoro alla ricerca del sussidio e in tema di istruzione dal seguire l’abbandono scolastico si va piuttosto a rinforzare la capacità di partecipare e frequentare “da remoto”. Le esigenze si fanno sentire, in questo contesto la crisi sanitaria con la chiusura dei Pronto soccorso, unico presidio rimasto per i non tutelati, ha reso più drammatica la situazione per chi non ha tutele».
«Il Covid ha inciso dunque molto – chiude Alterisio –, e arrivano ora tante persone che pensavano di aver intrapreso un percorso di autodeterminazione e si ritrovano al punto di partenza. Da quello che abbiamo visto la questione lavoro è diventata importante, nel senso che molti ragazzi da noi seguiti nel tempo e che magari avevano qualche lavoro saltuario, nella ristorazione o nel comparto agricolo, si sono ritrovati da un momento all’altro senza un contratto e ciò li ha riportati in una situazione di marginalità importante».