Immigrazione. Un paese multiculturale allo specchio
09 novembre 2020
Occorre uscire dalla rappresentazione cristallizzata di un’immigrazione povera e bisognosa ed esplorarne gli elementi arricchenti e ormai strutturanti della nostra società
Il 30° Dossier statistico immigrazione (2020), realizzato dal Centro studi Idos in collaborazione con Confronti e con il contributo dell’Otto per mille delle chiese valdesi e metodiste, è stato presentato il 28 ottobre in diretta streaming. Tra i temi emersi, le notizie false e le percezioni distorte, che il dossier ha l’obiettivo di superare con dati puntuali. E poi le conseguenze della pandemia di Coronavirus, a cui sono dedicati 10 dei 74 capitoli del volume: dal peggioramento delle condizioni lavo-rative di molti migranti, all’emergenza sanitaria che li colpisce doppiamente, l’aumento dell’isolamento, la spirale d’odio, la crisi del Mediterraneo, il quadro delle “migrazioni climatiche” e il loro legame con le cause della pandemia. Ma qual è la realtà che emerge dal Dossier? Abbiamo chiesto un commento a Roberta Ricucci, Docente di Sociologia dell’Islam e Sociologia delle relazioni interetniche all’ Università di Torino.
Ci avviciniamo al mezzo secolo di storia di immigrazione straniera in Italia. Un tempo che non consente più l’alibi di considerare uomini e donne, singoli e famiglie, non stranieri ma estranei, quando invece sono una componente strutturale e strutturante della società italiana. In tutti i territori, dai grandi comuni alle piccole realtà rurali, dalle aree di primo arrivo a quelle di secondo e successivo inserimento dei migranti. Soprattutto, un lasso di tempo che richiede di essere consapevoli delle caratteristiche dei 5.306.547 residenti non italiani nel Paese. Appunto, stranieri. Troppo spesso si usa questa etichetta con leggerezza.
Non tutti gli stranieri son uguali, nel senso che non a tutti riserviamo – di fatto – lo stesso trattamento, le stesse possibilità di inclusione. Proprio in questi giorni alcuni articoli sui media confermano la notizia, per nulla nuova né così lontana dalla storia familiare di molti italiani, di un mercato degli affitti “razzista”, ovvero che differenzia a seconda della provenienza, delle caratteristiche somatiche e fenotipiche. Accade oggi, nell’Italia ormai multiculturale, in cui risiedono 1.690.722 cittadini dell’Unione europea, ovvero non italiani che possono votare alle elezioni locali, hanno gli stessi diritti nell’accesso al mercato del lavoro degli italiani, non hanno bisogno di un permesso di soggiorno, sono da tutti i punti di vista paragonabili ai nostri connazionali emigrati in Spagna, Germania o Malta.
Accanto a loro vi sono gli altri, latino americani, africani, asiatici o altri europei: poco più di 3.615.826, di cui il 60% con oltre dieci anni di residenza regolare (i cosiddetti lungo soggiornanti), quindi – teoricamente – pronti per entrare nella comunità dei cittadini italiani. Se però dal totale dei residenti stranieri sottraiamo i cittadini comunitari e i lungo soggiornanti, ovvero coloro che sono inseriti stabilmente e con uno statuto giuridico forte nel contesto italiano, restano 1.446.331. Sono loro a cui in realtà spesso ci si riferisce con il termine “immigrati”: coloro che son arrivati da poco, destinatari principali di corsi di italiano, di attività di accompagnamento all’inserimento sociale, spesso residenti di quartieri ad alta percentuale di stranieri, clienti di esercizi commerciali etnici. Come pure frequentatori dell’associazionismo etnico e religioso, luoghi spesso di quiete e sostegno di fronte alle fatiche del ridefinire le proprie vite in un paese diverso. Si tratta di un processo faticoso, anche per chi ritrova coniugi o genitori. Infatti, da alcuni anni, i nuovi arrivi sono prevalentemente per ricongiungimenti familiari, seguiti dai motivi di lavoro e da quelli di protezione internazionale.
Bastano i pochi dati sopra citati e le distinzioni fatte per ricordare, ancora una volta, come tutte le questioni complesse siano sfaccettate, articolate e in movimento. Il fermo immagine che vuole gli immigrati cristallizzati nel ruolo di badante, lavoratore manuale e bisognoso di accompagnamento e sociale e provvisioni di welfare è da tempo una semplificazione da archiviare. Aumento di famiglie ricongiunte e di nuove famiglie formate dalle seconde generazioni, uscita (ancora debole, ma costante) da un mercato del lavoro che segrega nelle occupazioni più pericolose, pesanti e socialmente penalizzate, passaggio dalla scuola superiore all’università degli allievi con cittadinanza non italiana, che rappresentano il 10% della popolazione scolastica complessiva e per il 64% nati in Italia son solo alcuni dei tratti che compongono la complessa realtà italiana.
Certo, ancora molta strada è da fare. Son ancora vistosi fenomeni di sottooccupazione e di sovraistruzione nell’inserimento lavorativo: altrimenti detto, la mansione svolta (e la retribuzione) non tiene conto di qualifiche e formazione. Fenomeno noto nell’Italia, che ha “riscoperto” attraverso la lente dell’immigrazione temi ancora irrisolti, dal lavoro nero al sottoutilizzo del capitale umano, dallo sfruttamento in agricoltura all’indispensabile formazione continua nei servizi socio-assistenziali e sanitari. È la cosiddetta “funzione specchio” assolta dagli immigrati: talora demonizzati proprio perché ci ricordano le fragilità di una società da tempo multiculturale e multireligiosa.