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Mai più armi nucleari, il trattato Onu verso l’entrata in vigore

Il 22 gennaio 2021, le armi nucleari diventeranno illegali secondo il diritto internazionale, ma la strada è ancora lunga. Intervista a Lisa Clark (ICAN)

Sono trascorsi più di 75 anni dall’agosto del 1945, quando il mondo venne messo di fronte alla devastante potenza delle bombe atomiche, che segnarono la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio dell’era della “guerra fredda”, ma soprattutto dei timori per una guerra atomica capace di cancellare tutto quanto.

A distanza di tre quarti di secolo, le armi nucleari diventeranno illegali secondo il diritto internazionale. Lo scorso 24 ottobre, infatti, l’Honduras è diventato il cinquantesimo Stato a ratificare il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW), segnando una nuova stagione: il 22 gennaio 2021 questo Trattato entrerà in vigore e diventerà vincolante diritto internazionale.

Si tratta del primo accordo legalmente vincolante che vieta lo sviluppo, i test, la produzione, l'immagazzinamento, il trasferimento, l'uso e la minaccia delle armi nucleari, e la sua approvazione nel 2017 portò al Premio Nobel per la pace per ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons – Campagna Internazionale per l’abolizione delle armi nucleari).

Anche se oggi la minaccia nucleare sembra remota, schiacciata da crisi ed emergenze sempre nuove, il rischio è molto concreto.

A gennaio del 2020 il Bulletin of the Atomic Scientists, un’organizzazione fondata da Albert Einstein e Robert Oppenheimer nel 1947, ha dichiarato che siamo più vicini che mai a quella che chiamano “l’apocalisse”. Per descrivere quanto siamo vicini, da oltre 70 utilizzano un simbolico orologio da muro, il “Doomsday Clock”, avvicinando o allontanando le lancette dalla mezzanotte in base a quanto il rischio sia in crescita o in diminuzione. Quest’anno, queste lancette sono arrivate a 100 secondi dalla mezzanotte. In precedenza, il momento di maggior vicinanza era stato 120 secondi nei momenti più duri della Guerra Fredda e del riarmo nucleare da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica all'inizio degli anni Ottanta.

Lisa Clark, co-presidente dell'international Peace Bureau, organizzazione internazionale premiata con il Nobel per la pace nel 2017 e rappresentante italiana di ICAN, racconta che l’iniziativa era nata da una presa di coscienza sul tema del disarmo nucleare. «Intorno al 2007 – ricorda – come organizzazioni internazionali che si occupano di disarmo nucleare da tanti anni, ci siamo resi conto che la speranza che le potenze nucleari riconosciute dal trattato di non proliferazione procedessero nel rispettare gli obblighi derivanti da quel trattato, e cioè negoziare il disarmo totale delle armi nucleari, erano vane. Le grandi potenze avevano cominciato semplicemente a pensare che per loro era legittimo detenere quelle armi e che c'era sempre qualcos’altro da fare prima, cioè risolvere i problemi della non proliferazione di altri Stati e così via».

Quindi che cosa si pensò di fare?

«Abbiamo cercato di ragionare su come cambiare l'oggetto della discussione sul tavolo. Grazie anche alle religioni per la pace, la Croce Rossa Internazionale e molte altre organizzazioni, si è ripartiti dalle conseguenze catastrofiche di un qualsiasi uso di armi nucleari, che sono inaccettabili e non rimediabili. Lì i sono entrate in ballo anche l’Oms e le altre agenzie dell'Onu che affermavano di non essere in grado di rimediare all'uso di armi nucleari contro la popolazione. L'unica conclusione possibile a quel punto diventava la necessità di metterle al bando tutte, perché non ci sono potenze “buone” che possono continuare a detenerle. Lo sforzo dev’essere quello di eliminarle tutte e per sempre, come è stato fatto con le altre armi di distruzione di massa. Il nucleo di sostenitori è andato crescendo fintanto che una volta che l'assemblea generale dell'Onu ha accettato di convocare una conferenza per discutere e stabilire il testo di questo trattato per la proibizione, si è arrivati al voto per approvare il trattato con 122 Stati membri favorevoli su 193».

Tra questi, mancano le potenze nucleari e i Paesi della NATO. Non è una particolare sorpresa, ma al di là dell’adesione ci sono alcuni Paesi, in particolare gli Stati Uniti, che stanno andando in direzione contraria rispetto alla proibizione. Quanto è preoccupante?

«Molto. Il momento che stiamo attraversando dal punto di vista del rischio di catastrofe nucleare per il pianeta intero è più grave probabilmente di quanto non sia mai stato nemmeno al culmine della “guerra fredda”.

L'amministrazione Trump si sta ritirando da tutti i trattati internazionali di controllo degli armamenti: il presidente ha stracciato il trattato INF, che aveva fatto smantellare gli “euromissili”. Nella mia generazione scendevamo in piazza contro i Pershing, i Cruise, anche gli SS-20 sovietici, una classe di armamenti “a raggio intermedio”, perché non è intercontinentale come gittata, che fu rimossa e smantellata con verifica internazionale grazie a un accordo firmato tra Reagan e Gorbacev. Questo accordo va rinnovato a intervalli di alcuni anni, ma nel 2019 Trump si è tirato fuori affermando che gli Stati Uniti non ne hanno più bisogno e che comunque la Russia lo sta violando. A quel punto la Russia con Putin ha annunciato che stanno lavorando allo sviluppo di cinque nuove “meravigliose armi nucleari” e un mese dopo Trump ha detto che anche gli Stati Uniti avrebbero avuto delle nuove armi nucleari come nessuno ne ha mai viste. Due anni prima, Washington si era anche ritirata dall'accordo sul nucleare iraniano. Una cosa dopo l'altra stiamo andando verso un regime di tensione internazionale in cui le armi nucleari stanno riacquistando un ruolo prioritario nelle dottrine militari di questi due Paesi e delle altre potenze nucleari».

Un trattato come questo non è soltanto una legge: da un lato c'è l'aspetto normativo, ma dall'altra, come in altri trattati come quello per la proibizione delle mine antipersona, c’è l'effetto stigma, l'effetto di puntare il dito su chi questi trattati non li vuole osservare, li vuole violare o ignorare. Quanto pesa la dimensione di stigma all'interno della campagna per la proibizione delle armi nucleari?

«Moltissimo. Noi siamo stati chiamati “la voce morale dell'umanità”, è una cosa molto bella prima di tutto perché rappresentiamo una fetta enorme della società globale, perché anche nei Paesi che detengono le armi nucleari ogni volta che sono state fatte indagini, sondaggi d'opinione, cose del genere, abbiamo maggioranze schiaccianti a favore della messa al bando. Negli Stati Uniti siamo sul 68% tra i cittadini di chi crede che davvero si debbano mettere al bando le armi nucleari, quindi c'è un’idea da parte delle società civili di tutto il mondo che questa è la strada da percorrere, che seguire questo trattato ci porta dalla parte giusta della storia, per così dire.

Il fatto che lo stigma abbia i suoi effetti positivi anche sulle decisioni militari ce lo dimostrano vari argomenti. Per esempio, uno dei pochi Paesi che non ha mai firmato e ratificato la convenzione per la messa al bando delle mine antipersona sono gli Stati Uniti. Eppure, da quando è entrata in vigore quella convenzione, gli Stati Uniti non hanno più messo una mina antipersona da nessuna parte. Quindi significa che il non voler essere svergognati dalla propria popolazione un effetto ce l’ha. Si pensi che Eisenhower, presidente degli Stati Uniti negli anni Cinquanta, durante la parte finale della guerra di Corea, scrive nelle sue memorie che decise di non usare l’arma nucleare per finire velocemente rapidamente la guerra in Corea perché era ormai un tabù a livello globale e lui non poteva andare contro un tabù che tutte le popolazioni ormai avevano incorporato. Ecco, questo è lo stigma.

Il problema è che altri presidenti, come Trump, si comportano in modo un po’ diverso. Per quanto riguarda la posizione degli Stati Uniti che ci sta portando in questa tensione altissima, vorrei ricordare che domani ci sono le elezioni negli Stati Uniti, e pesa la minaccia di Trump di non rinnovare il New Start, il trattato che firmarono Medvedev e Obama, l'ultimo trattato rimasto in vigore tra Stati Uniti e Russia per controllare le armi nucleari. Questo trattato scade il 5 febbraio dell'anno prossimo e Biden ha detto che se diventerà presidente lo rinnoverà eccome. Le cose quindi possono ancora cambiare».

All’appello manca anche l'Italia, che non ha nemmeno partecipato alla negoziazione del trattato nel 2017. Come mai?

«Si spiega in un solo modo, cioè che gli “ordini di scuderia” ai membri della NATO vengono dati e non ammettono diniego. Per la sua tradizione culturale, così come per il suo tradizionale ruolo politico a livello internazionale, l’Italia dovrebbe essere in prima fila nel proporre questo trattato e farlo approvare da altri, nel portarlo avanti in tutte le maniere. Pensiamo alla storia degli ultimi quarant'anni e di quello che l’Italia ha fatto in campo internazionale per contrastare le altre armi di distruzione di massa o le mine antipersona: l'italia è stato il primo Paese al mondo a ratificare il trattato per la messa al bando delle bombe a grappolo, l'Italia è stata tra i primi a ratificare e il Parlamento italiano ha ratificato all'unanimità, ha votato all'unanimità per la ratifica del trattato internazionale contro il commercio delle armi. L’Italia è stata tra i primi e più attivi promotori della moratoria contro la pena di morte.

Per questo noi, quando alla prima occasione di votare sul tenere o meno la conferenza che doveva elaborare il testo del trattato, l’Italia votò contro come tutti i paesi della NATO, abbiamo lanciato la campagna “Italia, ripensaci”. Pensavamo davvero che fosse una contraddizione con la storia del Paese e con il suo sentimento profondo. Invece da allora nessuno ci ha mai risposto: a livello governativo nessuno ha mai voluto rispondere alle decine di migliaia di cartoline inviate dai cittadini, alle oltre 170-180 risoluzioni e delibere dei consigli comunali che appoggiano la campagna. L'italia, più che contraria, è non pervenuta. Soltanto una viceministra agli Esteri ha risposto affermando che l’Italia è favorevole al trattato di non proliferazione, ma che invece il trattato per la proibizione delle armi nucleari non abbia le caratteristiche di gradualità e di inclusività che questo percorso richiederebbe».

Certamente, quello sarebbe decisivo, ma anche in generale provare a non vedere questa materia esclusivamente in funzione anticinese come invece stiamo vedendo proprio da parte dell'amministrazione Trump.

Il 22 gennaio 2021 il trattato entrerà ufficialmente in vigore. Quali sono i prossimi passi della campagna in questi mesi?

«Cercheremo di svegliare i parlamentari italiani. Moltissimi di loro, nella scorsa legislatura, avevano aderito al nostro appello a favore del trattato per la proibizione delle armi nucleari, ma poi non se n'è fatto più nulla. Adesso speriamo che i parlamentari ci aiutino a rilanciare il percorso, speriamo che si apra davvero un dibattito in Parlamento per convincere il governo che c’è molto da fare.

L’Italia non può subito firmare perché dovrebbe prima prendersi l'impegno di liberare il territorio italiano dalle 40 testate nucleari che si trovano a Ghedi, in provincia di Brescia, e ad Aviano, in provincia di Pordenone, ma perlomeno speriamo di poter iniziare un dibattito in Parlamento.

Il trattato mira davvero ad allargare la base delle adesioni, ha l’ambizione di diventare universale, universalmente ratificato da tutti, e per fare questo per esempio si prevedono conferenze annuali degli Stati parte alle quali gli Stati che non sono ancora parte del trattato possono partecipare come osservatori. Ecco, participare al dibattito, alla discussione, e quindi cercare in qualche modo di aprire le porte e alla condivisione dei contenuti, è qualcosa che l’Italia può fare».

 

 

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