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Immigrazione, il saldo è sempre positivo

Dieci anni di economia dell’immigrazione raccontati dalla nuova edizione del rapporto della Fondazione Leone Moressa. Intervista alla ricercatrice Chiara Tronchin

Affrontiamo quotidianamente il tema della migrazione attraverso la lente dell’accoglienza, mentre è molto più raro interrogarci sulla dimensione economica del fenomeno, soprattutto quando si parla di lavoro.

A colmare questa mancanza è, da dieci anni a questa parte, il rapporto annuale della Fondazione Leone Moressa, che racconta una realtà molto diversa rispetto a quella spesso urlata dai teorici dell'immigrazione come emergenza. I lavoratori stranieri nel nostro Paese, infatti, versano tasse, contributi e imposte di vario genere per un totale di 26,6 miliardi di euro, producendo una ricchezza che vale 147 miliardi, il 9,5% del Prodotto interno lordo italiano. Visto che il costo totale dei servizi erogati ai residenti con cittadinanza straniera, dalla scuola alla sanità, fino all’intero sistema dell’accoglienza, è pari a 26,1 miliardi, circa il 3% della spesa pubblica, il saldo tra quanto le casse pubbliche ricevono e ciò che erogano è pari a 500 milioni l’anno.

Insomma, gli immigrati danno all’Italia più di quello che ricevono, e se potessimo aggiungere al conto anche tutte le persone sottoposte al lavoro nero e all’irregolarità, il distacco tra spese e entrate si farebbe ancora più ampio.

Gli stranieri in Italia oggi risultano in aumento, ma gli ingressi per lavoro sono in costante calo dal 2010 a oggi, al punto da essere calati addirittura del 97%. Giulia Tronchin, ricercatrice della Fondazione Moressa, spiega che «la crisi economica ha invogliato meno gli stranieri a venire in Italia per trovare lavoro. Inoltre per gli extracomunitari non c'è possibilità di ingresso nel Paese se non con i permessi di lavoro stagionali. Quello che è stato usato, soprattutto per chi arriva dall'Africa, sono gli ingressi per richiesta d'asilo, che è uno dei pochi modi per riuscire a entrare nel Paese. Si innescano tutti quei meccanismi che abbiamo visto in questi anni: l'aumento delle persone che sono arrivate attraverso gli sbarchi, il fatto che entrano in accoglienza, la difficoltà di avere un permesso, ovviamente un altro iter rispetto a una persona che entra per cercare lavoro e quindi la difficoltà appunto di trovare lavoro».

Nella riforma dei “decreti sicurezza”, o “decreti Salvini”, approvata dal governo italiano a inizio ottobre, viene inserita la possibilità di convertire un permesso che è stato di accoglienza in un permesso per motivi di lavoro. Questo potrà dare un contributo all'emersione dell'economia immigrata che ancora oggi non conosciamo?

«Qui entriamo proprio in un altro tema, che sono gli stranieri che arrivano nell'accoglienza, un fenomeno un po' particolare. È una riforma importante perché oggi le problematiche di queste persone sono legate proprio ai permessi di soggiorno: è difficile che una persona assuma persone di cui non si sa se avranno il permesso di soggiorno, se potranno rimanere in Italia, sono persone che rischiano di finire sul mercato nero. È una riforma che può aiutare, ma la questione va va un po' contestualizzata. Nell'accoglienza abbiamo 90 mila richiedenti asilo, gli stranieri residenti in Italia sono 5 milioni e la principale nazionalità è la Romania, quindi il tutto va un po' ridimensionato».

Consideriamo spesso il lavoro straniero come una massa un po' indifferenziata, ma quando parliamo appunto di economia dell'immigrazione di che lavori parliamo? Come sta l’imprenditoria straniera?

«Prima di tutto va ribadito che i due milioni e mezzo di occupati stranieri non sono in concorrenza con gli italiani perché fanno occupazioni complementari. La maggior parte degli occupati stranieri svolge lavori poco qualificati, pensiamo che le prime due professioni sono i domestici e i badanti, poi abbiamo i braccianti o gli ambulanti. Il problema è che facendo lavori poco qualificati contribuiscono anche poco a livello fiscale. Quindi in questo momento il saldo è positivo perché sono giovani e lavorano, non pesando sulla sanità o sulle pensioni, ma questa occupazione che non va in concorrenza con quella italiana può diventare un problema a lungo termine, perché si traduce in pensioni molto basse e quindi in un appesantimento del welfare. Quello che bisogna continuare a fare, al di là delle problematiche dell'inserimento lavorativo, è cercare di creare mobilità sociale anche per loro in modo che contribuiscano di più al nostro sistema. Un altro aspetto problematico dell'occupazione straniera è l'irregolarità. Ovviamente se le persone lavorano in nero e non hanno il permesso di soggiorno non contribuiscono al sistema economico e quindi anche questa è una cosa che va contrastata. Esiste anche il fenomeno dell'imprenditoria, ovviamente, sono oltre 700 mila gli imprenditori nati all'estero. Anzi, oggi un imprenditore su dieci è nato all'estero. I principali Paesi di nascita sono la Cina, la Romania, il Marocco, è un’imprenditoria localizzata, che in alcune province è molto importante, basta pensare a Prato dove un imprenditore su quattro è nato all'estero».

Tra i punti chiave del vostro rapporto viene anche sottolineata la presenza di "nuovi italiani", cioè gli stranieri che ottengono la possibilità di essere naturalizzati. Si tratta di un milione e duecentomila in dieci anni. Che cosa succede a queste persone in relazione al vostro rapporto?

«Da un punto di vista statistico scompaiono, nel senso che diventano italiani. Quindi in realtà in tutti i dati non ci sono questo milione di naturalizzati, sono diventati italiani. Non entrano nei 5 milioni, non entrano 2 milioni e mezzo di occupati, sono italiani e quindi rientrano in tutte le statistiche relative agli italiani. Sono dati importanti, perché fanno capire che la popolazione di origine straniera è molto più elevata dell'8,7% della popolazione ufficiale, arriviamo intorno al 12-13 per cento. È un fenomeno in costante aumento che ci permette di capire un po' di più l'evoluzione del nostro Paese nei prossimi anni».

Foto di Radio Alfa

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