Migrazioni, la Open Arms ancora in mare con 275 persone
17 settembre 2020
Italia e Malta non hanno concesso un porto sicuro alla nave della Ong spagnola, che rimane in attesa, mentre la situazione medica e psicologica a bordo si fa sempre più difficile
Rimane ancora al largo di Palermo la nave Open Arms, che negli ultimi giorni ha salvato centinaia di persone lungo la rotta del Mediterraneo centrale.
Dopo il rifiuto di Malta di concedere riparo per il temporale, la nave della Ong spagnola era arrivata ieri pomeriggio nelle acque del capoluogo siciliano, ma per ora rimane distante dal porto in attesa di ricevere indicazioni per l’attracco o per il trasbordo. Sono 275 le persone migranti che si trovano ancora a bordo, salvate in tre distinte operazioni, due nella zona di ricerca e soccorso (Sar) maltese, una nell’area di competenza libica.
Due giorni fa, sull’imbarcazione si erano registrati momenti di tensione, al punto che alcune persone si erano gettate in acqua per la disperazione ed erano state recuperate insieme alla Guardia costiera, mentre tre persone, ovvero due donne incinte e il marito di una di loro, erano state evacuate e portate sulla terraferma, in Sicilia.
A bordo della nave, oltre ai volontari di Open Arms, sono presenti una dottoressa e un’infermiera di Emergency, che stanno fornendo assistenza medico-sanitaria alle persone salvate. Ma il tempo è un fattore chiave. Francesca Bocchini, dell’Ufficio Umanitario di Emergency, racconta che «gli spazi a bordo sono quasi esauriti».
Quali sono le condizioni delle persone a bordo?
«Ovviamente ci sono persone che sono affette da scabbia, ma più in generale ci sono condizioni di disidratazione, stato confusionale e malnutrizione. In particolare, il terzo salvataggio ha raccolto persone che erano su una imbarcazione precaria da oltre due giorni senza cibo né acqua. Quindi diciamo che la nostra dottoressa e la nostra infermiera a bordo stanno avendo da fare per offrire loro assistenza».
Che cosa non sta funzionando nei meccanismi dei governi per individuare un porto sicuro?
«La richiesta è stata presentata a Malta, visto che il primo e il terzo salvataggio erano avvenuti nella zona maltese, ma è stata negata. È un grande braccio di ferro fra Paesi che dovrebbero essere competenti e dovrebbero rappresentare i porti sicuri, ma che negano il porto alle organizzazioni. La settimana scorsa dopo dieci giorni di attesa, ha attraccato Sea Watch con oltre 300 persone a bordo. È una storia che si ripete e la volontà è quella di lanciare un messaggio ai vicini, cioè non cedere di fronte alle richieste delle Ong per lanciare il messaggio politico che la responsabilità dev'essere condivisa e che non possono essere sempre Malta e l'Italia a ricevere i migranti. Noi di Emergency sappiamo benissimo che questa non può essere la soluzione, perché a bordo ci sono persone che hanno uno stato di salute e psicologico assolutamente precario, sono estremamente vulnerabili, per cui la soluzione non può essere questo braccio di ferro politico».
Due giorni fa erano state evacuate due donne incinte e il marito di una di loro. Ma perché si è scelto di assistere soltanto loro?
«La nostra dottoressa aveva richiesto l'evacuazione urgente per ragioni sanitarie per nove persone. Le due donne in gravidanza, che erano ovviamente particolarmente esauste e necessitavano di accertamenti, al momento si trovano all'ospedale di Agrigento con il marito di una delle due. Era stata chiesta l’evacuazione anche per sette uomini che riportavano delle gravissime lesioni da ustione per la commistione tra acqua salata e benzina, purtroppo un classico di queste traversate. Per queste persone però c’è stato il diniego. Eppure il motivo per cui si chiedono le evacuazioni è strettamente sanitario, quindi una valutazione da parte della dottoressa a bordo in questo caso, mentre sta alle autorità sanitarie e alle autorità competenti concederla oppure no».
A proposito delle persone che ci sono a bordo, che cosa si aspettano di trovare “dall'altra parte”, ovvero in Europa? C'è qualche storia che ritiene particolarmente significativa?
«In questo momento abbiamo raccolto la testimonianza di un paio di ragazze somale, che raccontavano alla nostra dottoressa i soprusi e le violenze subite in Libia. Una delle due ragazzine a un certo punto si è incupita, ha raccontato Paola, la dottoressa, e ha detto che non voleva più parlare ma voleva vedere quanto fosse bella l’Italia. In generale, visto che lavoriamo nelle operazioni di soccorso ormai dal 2015, vediamo che le storie si ripetono. Il desiderio di lasciarsi alle spalle un viaggio terribile e la situazione in Libia che li ha segnati tutti quanti, in particolare le donne che hanno subito violenze sessuali ripetute, ma soprattutto il desiderio di vivere in un posto che li faccia sentire sicuri e in cui i diritti umani sono rispettati».
Il 2020 è un anno che sarà per sempre segnato dalla pandemia di Covid-19, che ha colpito tutti e soprattutto i Paesi industrializzati e fortemente connessi. Eppure, tra luglio e agosto alcune parti politiche hanno cominciato ad associare il fenomeno migratorio con i rischi di contagio. Nei mesi più difficili della pandemia in Italia, Emergency ha portato la propria competenza medica in diverse strutture italiane. Come si è trasferita quest’esperienza nelle operazioni di ricerca e soccorso in mare?
«Oltre ai diversi fronti in Italia abbiamo agito anche nei nostri progetti all'estero, dove dovevamo mantenere le condizioni il più possibile ottimali per continuare le nostre operazioni e assicurare l'assistenza sanitaria alle persone che ne hanno bisogno. Abbiamo sviluppato dei protocolli di prevenzione e controllo delle infezioni che abbiamo applicato, adattandoli, a ogni contesto. In questo caso abbiamo lavorato insieme a Open Arms alla redazione di questi protocolli da applicare alla nave e quindi l'equipaggio e i migranti che vengono soccorsi indossano i necessari dispositivi di protezione. Ovviamente l'equipaggio è più bardato, perché deve compiere operazioni di soccorso a stretta vicinanza, ma esiste tutta una serie di accorgimenti e di comportamenti per limitare il più possibile il diffondersi del virus qualora fosse a bordo. Gli spazi in una nave non sono immensi, per cui è possibile che, se qualcuna delle persone è asintomatica e non viene rilevato alcun sintomo, ci sia una circolazione locale. Però l’equipaggio è pronto e preparato il più possibile per gestire una qualsiasi situazione di emergenza sanitaria a bordo».